Una riflessione sulla scuola italiana

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Una riflessione sulla scuola italiana

Una riflessione sulla scuola italiana

Scritto da Maria Mancusi

Raccontare la scuola è come raccontare il mondo: l’impressione è sempre la stessa, quella  di rimanere in superficie a guardare la punta di un iceberg, senza la consapevolezza di quello che si agita o si potrebbe esplorare nei fondali. E il primo errore di valutazione, forse, lo abbiamo già fatto dalla prima riga. Aggiustiamo allora il tiro: la scuola non è come il mondo. La scuola è il mondo, quello dell’oggi, ma soprattutto quello del domani. Ci racconta che cosa siamo e che cosa saremo o avremo deciso di essere. Sono anni che l’informazione poco si occupa di questa istituzione e che, quando lo fa, si concentra, esclusivamente e per puro dovere di cronaca, a parlare di quello che “ha” non di quello che “è”, ammesso che  la scuola “sia” ancora qualcosa. E la gente registra certe notizie senza ascoltarle, senza più dare loro un valore, per cui in merito all’argomento son decenni che circolano sempre le stesse opinioni: insegnanti fannulloni e incapaci o, nel migliore e più compatito dei casi, precari, alunni perditempo o bulli, strutture fatiscenti.

“Vecchia” è il solo aggettivo associato alla scuola che però la rappresenti autenticamente, al di là di ogni strumentalizzazione e del pessimismo più nero. La scuola è vecchia, ma non nel senso che vi aspettereste. Non per la classe docente che ormai supera in media i sessant’anni o per gli edifici malridotti. Non è questo il motivo che la rende decrepita. Anche se è quello che vogliono farci credere. Se ciò fosse vero, allora per rinverdirla basterebbe un colpo di spugna, basterebbe davvero inventarsi, come è stato fatto negli ultimi mesi, registri e libri di testo in formato elettronico o iscrizioni on line. Ma non è così.

Si invecchia quando si smette di sperare. E la scuola italiana ha smesso di farlo. Demagogicamente e populisticamente sarebbe semplice riempire questo articolo di tutti quelli che sono i suoi problemi. Si potrebbe cominciare dalla mancanza di carta igienica, di gesso per le lavagne, di inchiostro e carta per  stampanti e fotocopie,  di combustibile per i riscaldamenti,  di pc per insegnati e alunni, fatto quest’ultimo che la dice lunga sulla scuola del futuro, quella giovane, quella dove basta un click. Si potrebbe parlare di scuole “arrangiate” in edifici che erano palazzi privati, dove gli alunni, mai meno di venti per classe, vengono stipati in cucine e bagni oppure di strutture non più sicure e che andrebbero ristrutturate. Ma nemmeno tutte queste costatazioni sarebbero capaci di rendere vecchia la scuola. Le mancanze economiche e strutturali danneggiano la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ma di per sé non sono responsabili del fatto che oggi la scuola appaia come un’anziana signora. La sua età non è data da un fattore esterno, per cui, sì, ci auguriamo che si possano trovare fondi da destinare a questa istituzione per sanare le sue carenze e che l’avvento di strumenti elettronici possa ottimizzare la formazione dei ragazzi – e per far ciò andrebbe completamente riprogrammata la didattica e riformulati i libri di testo, perché la probabilità più alta è che la scuola telematica del futuro sia una brutta figlia di quella attuale, nata da una semplice triturazione di programmi e contenuti, il cui fine consiste solo nella lotta alla sopravvivenza per le case editrici, piuttosto che in un investimento di energie per concepire nuove possibilità di studio –  ma non riteniamo che la questione si risolva in questo modo.

Bisogna andare a fondo e nel fondo della scuola, alle sue basi, dentro e fuori di essa, c’è un sostrato umano tutto da analizzare. È l’umano che andrebbe esplorato, alla ricerca di questa vecchiaia che sta cambiando la scuola. E le tipologie umane che la popolano sono almeno tre: quelli che comandano, quelli che brigano, quelli che subiscono. Scontato? Forse che sì, forse che no vi risponderebbe, se potesse parlare, D’Annunzio.

Al primo gruppo appartengono sia i dirigenti e sia i genitori – gli uni alla ricerca di iscritti, perché, per chi non lo sapesse, oramai la scuola deve vendere se stessa e la cosa non sarebbe tanto deplorevole, se a essere in vendita fosse la conoscenza,  gli altri sempre pronti a insegnare ai docenti parassiti il loro lavoro. Entrambi hanno smarrito quel sentimento che dove si fa formazione, alla vita e alla professione, non dovrebbe andare mai perso: la fiducia, nelle persone che insegnano e nelle materie che si insegnano.

Al secondo gruppo appartengono gli insegnati, quelli “over sessanta” e “over venticinque”. I primi costituiscono l’80% della classe insegnate e per lo più sono stanchi del loro lavoro, sono delusi da una professione che non sentono più appartenere loro e che continuano a fare perché qualcuno ha allungato l’età pensionabile. Del resto non potrebbe essere diverso. Loro hanno vissuto la scuola quando questa ancora faceva sognare, quando ancora era un valore. I secondi, una percentuale minima, vivono la scuola come un miraggio. Pagati sempre in ritardo, continuamente peregrini da un istituto all’altro, la loro attività di insegnamento è sempre una meteora, luminosa, affascinate, ma destinata a durare poco. Eppure loro ci credono, sono gli unici che ci credono ancora. Hanno sfidato il ludibrio familiare e pubblico quando hanno scelto questo mestiere e se lo hanno fatto, a differenza di quanto avveniva per il passato, lo hanno fatto solo per passione, solo per seguire una visione, quella dell’eternità delle emozioni che si trasmettono e di quelle che si ricevono dagli allievi. Eh, sì, perché la scuola prima d’insegnare dovrebbe emozionare. Che ne sarebbe di Dante, Shakespeare, Leopardi, senza emozioni? Ma che ne sarebbe anche delle conoscenze matematiche, fisiche, chimiche se perdessimo di vista l’entusiasmo di Galileo quando parla del mondo come di un libro da imparare a leggere, perché Dio ha dato solo all’uomo questa possibilità? Nulla, non ne sarebbe nulla. Esattamente quello che accade oggi. Perché?

Per rispondere veniamo all’ultima tipologia umana che si rintraccia nel grande zoo scolastico, gli studenti: quelli che subiscono le aspettative dei genitori, a cui fino a qualche tempo fa interessava la felicità e la maturazione dei figli, prima che esse venissero identificate con un conto in banca, che subiscono le frustrazioni dei docenti, quelli che non ne possono più e quelli appena lattanti che inorridiscono dinanzi all’apatia di questi ragazzi che spegne i loro furori, quelli che subiscono le ansie della società che li partorisce. Gli studenti. È in loro che si concretizza lo spettro del vecchio. Se ai trentenni di oggi i ritmi e le esigenze della nostra società hanno ucciso i sogni, agli studenti la precarietà della vita e l’indeterminatezza del futuro li ha negati completamente.

E una società che nega i sogni nega il futuro.

Una scuola che nega la speranza è una scuola vecchia.

Per cui eccoli qui i ragazzi della scuola, nella scuola: spigliati fino al disprezzo delle regole e fragili nei loro sogni di carta, nella loro disillusione che diventa angoscia esistenziale.  E come dare loro torto? Sedere tra i banchi è solo aspettare un diploma che li renderà disoccupati, in una società che non sa riprogrammarsi e che non ha insegnato loro né la gioia del sogno né la fatica del reinventarsi.

Il loro disincanto, oggi, è la colpa peggiore.

Sbaglierebbero quanti tendessero a fare di questo discorso un ragionamento di stampo morale, perché una scuola vecchia, vecchia nei giovani che dovrebbero pensare propositivamente al futuro, è un problema ben più che etico, è un problema economico. Una scuola vecchia non è forse  il frutto di una società che ha smesso di investire, di credere nello sviluppo, di credere in una possibilità, di una società che parcheggia le leve del futuro in un asilo di falsi bisogni e di vuote ambizioni?

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Le università nel Nord piacciono

Le università nel Nord piacciono di più. E il 70% dei neolaureati trova subito lavoro

 

Il rapporto  di Almalaurea: Il 97% di chi abita nelle regioni settentrionali resta a studiare vicino casa, il 25% di chi vive al Sud emigra negli atenei del Centro e Alta Italia. Per la prima volta la maggior parte dei laureati è in corso

di CORRADO ZUNINO

 

 

Il 97,4 per cento dei ragazzi diciannovenni cresciuti nel Nord dell’Italia, dopo il diploma sceglie un ateneo della sua area geografica. E di quel 2,6 per cento che si sposta, solo lo 0,5 – un diplomato ogni duecento – sceglie un’università meridionale. Al contrario, quasi un quarto dei diplomati del Sud (il 23,9 per cento) emigra nell’Italia centrale e settentrionale (metà e metà) per continuare gli studi nell’alta formazione.

Il rapporto 2018 del consorzio universitario Almalaurea, “Sul profilo occupazionale e sulla condizione dei laureati”, 630 mila soggetti presi in considerazione, dice che l’esodo per lo studio è forte e continuo nel nostro Paese, come già aveva sottolineato la Flc Cgil.
Che gli atenei del Nord abbiano la migliore fama è dimostrato da altri due dati. Gli emigranti del Centro Italia (il 10,9 per cento in tutto) in tre casi su quattro scelgono le accademie settentrionali. E così coloro che hanno studiato in scuole superiori straniere: in oltre il 90 per cento dei casi, rientrando in Italia, continuano gli studi al Centro-Nord.

Alla ricerca della loro triennale o magistrale gli studenti italiani si spostano. Sono la maggioranza: il 53,8 per cento del totale degli iscritti (gli anni presi in esame sono il 2012, il 2014 e il 2016). Un quarto dei diciannovenni cambia solo provincia (25,5 per cento), un ottavo (il 12,5 per cento) si sposta ma resta nell’area geografica di appartenenza (Nord, Centro o Sud) e un altro ottavo (il 12,5 per cento) fa un viaggio lungo, verso un’altra area geografica. Poi c’è un 3,1 per cento che si diploma all’estero e, abbiamo visto, sceglie un’università italiana.

I MIGRANTI CULTURALI
A spostarsi sono più frequentemente i ragazzi che hanno un background socio-culturale più elevato: il 36,1 per cento di chi ha compiuto migrazioni di lungo raggio ha almeno un genitore laureato contro il 28,3 per cento di chi è rimasto nella stessa ripartizione geografica. Tendenze simili si rilevano analizzando il percorso scolastico precedente: chi ha cambiato area per motivi di studio aveva ottenuto un voto medio di diploma di 83/100 contro 80,8/100 di chi è rimasto nell’ambito dell’adolescenza.

Secondo l’Organizzazione per lo sviluppo economico, l’Italia è all’ottavo posto tra i Paesi Ocse per attrattività del sistema universitario di secondo e terzo livello: su cento studenti mobili, 2,6 scelgono l’Italia. La quota di laureati di cittadinanza estera è del 3,5 per cento quando nel 2007 era del 2,6. Molto è dovuto ai figli di immigrati che sono andati a scuola in Italia. Non a caso il 12,9 per cento è cittadino albanese, l’11,2 per cento rumeno.

LAUREATI UN ANNO PRIMA
Dal 2007 ad oggi, cioè da quando è stata varata la Riforma Berlinguer dell’università italiana, la cosiddetta “3+2”, l’età media di laurea è scesa di un anno: da 27 a 26. Nel 2016 era pari a 26,1 anni. Per i laureati di primo livello (tre anni) il titolo arriva mediamente a 24,8 anni, per i magistrali a ciclo unico a 27 anni, per i laureati magistrali biennali a 27,4.

Anche la regolarità negli studi è migliorata in questo decennio. Se nel 2007 il 37,9 per cento dei laureati concludeva gli studi in corso, nel 2017 la percentuale ha raggiunto il 51,1, ed è la prima volta che più della metà degli universitari italiani è in corso rispetto al piano originario. Se dieci anni fa a terminare gli studi con quattro o più anni fuori corso erano 17,4 laureati su cento, oggi si sono quasi dimezzati: il 9,8 per cento. Il voto medio di laurea – 102,7 su 100 – è sostanzialmente invariato.

ESPERIENZE ALL’ESTERO PER UNO SU DIECI
L’11,1 per cento dei laureati del 2017 ha svolto esperienze di studio all’estero riconosciute dal corso di studi (era il 7,9 per cento nel 2007): l’8,8 per cento ha utilizzato programmi dell’Unione europea, Erasmus in primo luogo. L’8,8 per cento del complesso dei laureati ha sostenuto esami all’estero poi convalidati al rientro e il 4,7 per cento ha preparato fuori Italia una parte significativa della tesi.

Dal Rapporto emerge la figura di un universitario che vanta apprezzabili conoscenze linguistiche: la quota dei laureati 2017 con una conoscenza “almeno buona” dell’inglese scritto è pari al 76,1 per cento e raggiunge l’81,3 tra i laureati magistrali biennali. E il 57,9 per cento ha compiuto un’esperienza di tirocinio curriculare o stage riconosciuta dal corso di studi (era il 50,8 dieci anni fa).

In generale l’88,1 per cento si dichiara complessivamente soddisfatto dell’esperienza universitaria appena conclusa (nel 2007 era l’87,1).

OCCUPATI DOPO UN ANNO
A un anno dal titolo il tasso di occupazione è pari al 71,1 per cento tra i laureati di primo livello e al 73,9 per cento tra i magistrali biennali. Il confronto con le precedenti rilevazioni evidenzia un miglioramento del tasso di occupazione che, nell’ultimo quadriennio, è aumentato di 5,4 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 3,8 punti per i magistrali biennali. Questi tassi non sono ancora in grado di colmare la significativa contrazione del tasso di occupazione intervenuta tra il 2008 e il 2013 (-17,1 punti percentuali per i laureati triennali).

La retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è, in media, pari a 1.107 euro per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali biennali. Nell’ultimo quadriennio le retribuzioni reali percepite dai laureati a un anno risultano in crescita: +9,7 per cento per i laureati di primo livello.

A cinque anni dalla laurea lavora all’estero il 6,6 per cento dei magistrali biennali di cittadinanza italiana (quota stabile rispetto al 2016, +0,6 punti percentuali rispetto al 2013). Chi decide di spostarsi all’estero per motivi lavorativi risulta “mediamente più brillante” (voti negli esami e regolarità negli studi) rispetto a chi decide di rimanere in Italia a lavorare. A cinque anni dal conseguimento del titolo magistrale, l’83,3 per cento degli occupati all’estero lavora in Europa.

 

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Una riflessione sulla scuola italiana

Una riflessione sulla scuola italiana

 

Scritto da Maria

 

Raccontare la scuola è come raccontare il mondo: l’impressione è sempre la stessa, quella  di rimanere in superficie a guardare la punta di un iceberg, senza la consapevolezza di quello che si agita o si potrebbe esplorare nei fondali. E il primo errore di valutazione, forse, lo abbiamo già fatto dalla prima riga. Aggiustiamo allora il tiro: la scuola non è come il mondo. La scuola è il mondo, quello dell’oggi, ma soprattutto quello del domani. Ci racconta che cosa siamo e che cosa saremo o avremo deciso di essere. Sono anni che l’informazione poco si occupa di questa istituzione e che, quando lo fa, si concentra, esclusivamente e per puro dovere di cronaca, a parlare di quello che “ha” non di quello che “è”, ammesso che  la scuola “sia” ancora qualcosa. E la gente registra certe notizie senza ascoltarle, senza più dare loro un valore, per cui in merito all’argomento son decenni che circolano sempre le stesse opinioni: insegnanti fannulloni e incapaci o, nel migliore e più compatito dei casi, precari, alunni perditempo o bulli, strutture fatiscenti.

“Vecchia” è il solo aggettivo associato alla scuola che però la rappresenti autenticamente, al di là di ogni strumentalizzazione e del pessimismo più nero. La scuola è vecchia, ma non nel senso che vi aspettereste. Non per la classe docente che ormai supera in media i sessant’anni o per gli edifici malridotti. Non è questo il motivo che la rende decrepita. Anche se è quello che vogliono farci credere. Se ciò fosse vero, allora per rinverdirla basterebbe un colpo di spugna, basterebbe davvero inventarsi, come è stato fatto negli ultimi mesi, registri e libri di testo in formato elettronico o iscrizioni on line. Ma non è così.

Si invecchia quando si smette di sperare. E la scuola italiana ha smesso di farlo. Demagogicamente e populisticamente sarebbe semplice riempire questo articolo di tutti quelli che sono i suoi problemi. Si potrebbe cominciare dalla mancanza di carta igienica, di gesso per le lavagne, di inchiostro e carta per  stampanti e fotocopie,  di combustibile per i riscaldamenti,  di pc per insegnati e alunni, fatto quest’ultimo che la dice lunga sulla scuola del futuro, quella giovane, quella dove basta un click. Si potrebbe parlare di scuole “arrangiate” in edifici che erano palazzi privati, dove gli alunni, mai meno di venti per classe, vengono stipati in cucine e bagni oppure di strutture non più sicure e che andrebbero ristrutturate. Ma nemmeno tutte queste costatazioni sarebbero capaci di rendere vecchia la scuola. Le mancanze economiche e strutturali danneggiano la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ma di per sé non sono responsabili del fatto che oggi la scuola appaia come un’anziana signora. La sua età non è data da un fattore esterno, per cui, sì, ci auguriamo che si possano trovare fondi da destinare a questa istituzione per sanare le sue carenze e che l’avvento di strumenti elettronici possa ottimizzare la formazione dei ragazzi – e per far ciò andrebbe completamente riprogrammata la didattica e riformulati i libri di testo, perché la probabilità più alta è che la scuola telematica del futuro sia una brutta figlia di quella attuale, nata da una semplice triturazione di programmi e contenuti, il cui fine consiste solo nella lotta alla sopravvivenza per le case editrici, piuttosto che in un investimento di energie per concepire nuove possibilità di studio –  ma non riteniamo che la questione si risolva in questo modo.

Bisogna andare a fondo e nel fondo della scuola, alle sue basi, dentro e fuori di essa, c’è un sostrato umano tutto da analizzare. È l’umano che andrebbe esplorato, alla ricerca di questa vecchiaia che sta cambiando la scuola. E le tipologie umane che la popolano sono almeno tre: quelli che comandano, quelli che brigano, quelli che subiscono. Scontato? Forse che sì, forse che no vi risponderebbe, se potesse parlare, D’Annunzio.

Al primo gruppo appartengono sia i dirigenti e sia i genitori – gli uni alla ricerca di iscritti, perché, per chi non lo sapesse, oramai la scuola deve vendere se stessa e la cosa non sarebbe tanto deplorevole, se a essere in vendita fosse la conoscenza,  gli altri sempre pronti a insegnare ai docenti parassiti il loro lavoro. Entrambi hanno smarrito quel sentimento che dove si fa formazione, alla vita e alla professione, non dovrebbe andare mai perso: la fiducia, nelle persone che insegnano e nelle materie che si insegnano.

Al secondo gruppo appartengono gli insegnati, quelli “over sessanta” e “over venticinque”. I primi costituiscono l’80% della classe insegnate e per lo più sono stanchi del loro lavoro, sono delusi da una professione che non sentono più appartenere loro e che continuano a fare perché qualcuno ha allungato l’età pensionabile. Del resto non potrebbe essere diverso. Loro hanno vissuto la scuola quando questa ancora faceva sognare, quando ancora era un valore. I secondi, una percentuale minima, vivono la scuola come un miraggio. Pagati sempre in ritardo, continuamente peregrini da un istituto all’altro, la loro attività di insegnamento è sempre una meteora, luminosa, affascinate, ma destinata a durare poco. Eppure loro ci credono, sono gli unici che ci credono ancora. Hanno sfidato il ludibrio familiare e pubblico quando hanno scelto questo mestiere e se lo hanno fatto, a differenza di quanto avveniva per il passato, lo hanno fatto solo per passione, solo per seguire una visione, quella dell’eternità delle emozioni che si trasmettono e di quelle che si ricevono dagli allievi. Eh, sì, perché la scuola prima d’insegnare dovrebbe emozionare. Che ne sarebbe di Dante, Shakespeare, Leopardi, senza emozioni? Ma che ne sarebbe anche delle conoscenze matematiche, fisiche, chimiche se perdessimo di vista l’entusiasmo di Galileo quando parla del mondo come di un libro da imparare a leggere, perché Dio ha dato solo all’uomo questa possibilità? Nulla, non ne sarebbe nulla. Esattamente quello che accade oggi. Perché?

Per rispondere veniamo all’ultima tipologia umana che si rintraccia nel grande zoo scolastico, gli studenti: quelli che subiscono le aspettative dei genitori, a cui fino a qualche tempo fa interessava la felicità e la maturazione dei figli, prima che esse venissero identificate con un conto in banca, che subiscono le frustrazioni dei docenti, quelli che non ne possono più e quelli appena lattanti che inorridiscono dinanzi all’apatia di questi ragazzi che spegne i loro furori, quelli che subiscono le ansie della società che li partorisce. Gli studenti. È in loro che si concretizza lo spettro del vecchio. Se ai trentenni di oggi i ritmi e le esigenze della nostra società hanno ucciso i sogni, agli studenti la precarietà della vita e l’indeterminatezza del futuro li ha negati completamente.

E una società che nega i sogni nega il futuro.

Una scuola che nega la speranza è una scuola vecchia.

Per cui eccoli qui i ragazzi della scuola, nella scuola: spigliati fino al disprezzo delle regole e fragili nei loro sogni di carta, nella loro disillusione che diventa angoscia esistenziale.  E come dare loro torto? Sedere tra i banchi è solo aspettare un diploma che li renderà disoccupati, in una società che non sa riprogrammarsi e che non ha insegnato loro né la gioia del sogno né la fatica del reinventarsi.

Il loro disincanto, oggi, è la colpa peggiore.

Sbaglierebbero quanti tendessero a fare di questo discorso un ragionamento di stampo morale, perché una scuola vecchia, vecchia nei giovani che dovrebbero pensare propositivamente al futuro, è un problema ben più che etico, è un problema economico. Una scuola vecchia non è forse  il frutto di una società che ha smesso di investire, di credere nello sviluppo, di credere in una possibilità, di una società che parcheggia le leve del futuro in un asilo di falsi bisogni e di vuote ambizioni?

 

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Non è vero che l’ITIS è per solo maschi!

«Ragazze iscrivetevi all’Itis e a ingegneria, perché le Ferrovie dello Stato Italiane hanno bisogno di voi!». È l’invito che Renato Mazzoncini, ad e direttore generale del gruppo Fs, rivolge alle studentesse italiane. «Nel 2016 abbiamo assunto 2.300 persone, a settembre 2017 abbiamo già raggiunto i numeri del 2016 e chiuderemo l’anno con un numero maggiore. Di queste il 70% viene da istituti tecnici. Abbiamo assoluta necessità di diplomati provenienti dagli Itis che danno un’ottima preparazione», dice Mazzoncini a Business Insider, spiegando cosa cercano Fs nei nuovi assunti.

Nel processo di recruiting Fs Italiane si trova davanti a un grosso problema: «Gli istituti tecnici non sono frequentati dalle donne, siamo a circa il 10% dei diplomati, così come la percentuale femminile che si iscrive a ingegneria resta ancora molto bassa». Per l’ad esiste un tabù culturale da abbattere: «Se una ragazza delle medie dice ai genitori. “Voglio frequentare un istituto tecnico”, la reazione spesso è: “Mamma mia, lì sono tutti uomini e sarai penalizzata dalla competizione”. In realtà è l’esatto contrario! Se le ragazze continuano a iscriversi al linguistico o a voler fare la segretaria di azienda, apprenderanno competenze non più spendibili. Volendo noi arrivare a una situazione paritaria di genere in azienda, abbiamo bisogno di donne preparate tecnicamente».

 Per questo Fs da oltre un anno ha avviato due programmi – “Woman in motion” e “Girl in motion” – che mirano a invertire la tendenza: oggi nel Gruppo la presenza femminile si attesta al 14,6% della forza lavoro, dato che scende al 2,5% nella manutenzione e allo 0,8% tra i macchinisti, numeri considerati insoddisfacenti. Per rompere il meccanismo perverso, «mandiamo nelle scuole medie e nelle superiori le donne che in Fs ricoprono posizioni tecniche apicali a incontrare i ragazzi e le ragazze. Sono le testimonial del fatto che la possibilità di carriera per una donna in Fs è più che reale», dice un soddisfatto Mazzoncini.

Ma le difficoltà di reperire risorse formate per le Ferrovie riguardano anche i neo laureati, i quali, per risultare interessanti, devono possedere un mix di competenze verticali (leggi preparazione tecnica), un buon voto di laurea, ma anche soft skills personali molto chiare come empatia, capacità lavorare in gruppo, visione laterale, oltre alla disposizione a lavorare in contesti complicati o, banalmente, all’estero. Naturalmente, l’inglese è imprescindibile, visto che ci sono giàsettori del Gruppo dove si parla solo inglese e sarà sempre più così.

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«Nel momento in cui cerchiamo nuove figure», continua l’ingegner Mazzoncini, «ci troviamo con ragazzi reduci da percorsi universitari iperspecialistici. Però il mondo della mobilità è assolutamente trasversale, richiede competenze che spaziano dall’ingegneria pura all’economia, dall’informatica alla filosofia. È un mercato in continua espansione, che sta attraendo enormi investimenti, in grado di alimentare il mondo del lavoro, tuttavia ancora sono poco strutturati o inesistenti corsi universitariin ingegneria della mobilità!».

Altro punto dolente è la durata dei cicli di studio: «Se stai cercando un ingegnere, ti trovi a scegliere tra meccanici, elettrici o civili, i quali però hanno caratteristiche parziali, quindi dobbiamo formarli noi una volta cooptati in azienda. L’alternativa è frequentare master post universitari, ma così si allungano ulteriormente i tempi di entrata nel mondo del lavoro, dove già i ragazzi italiani arrivano con 2 o 3 anni di ritardo rispetto ai competitor esteri. E se poi ci aggiungi anche il master, la situazione s’aggrava. E in questo settore la velocità è tutto».

Renato Mazzoncini, AD FS e Nicola Zingaretti, Presidente Regione Lazio. Sara Minelli/ Imagoeconomica

Tanto che il “capo” di Fs sfata un mito piuttosto consolidato: tra iper preparazione e velocità, vince la seconda: «Fanno più carriera quelli che entrano presto in azienda grazie a un percorso scolastico veloce, rispetto a chi vi arriva dopo 10 anni di università e magari un PhD. Quest’ultimo avrà sicuramente una preparazione più robusta, ma è rimasto talmente indietro rispetto al primo che perde la partita».

Per tentare di dare una sterzata anche al mondo accademico, Fs Italiane ha avviato una stretta collaborazione con le principali università italiane. Già da tempo è attivo alla Sapienza di Roma il “Master di secondo livello in ingegneria delle infrastrutture e sistemi ferroviari – Innovazione per la mobilità integrata”, un corso che ogni anno licenzia 30 brillanti ingegneri che planano direttamente tra le braccia di “mamma Ferrovia”.

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Ma ora è venuto il momento di fare un passo avanti, col fine non celato di imporre la mobilità come disciplina primaria di studio. «Per questo ho proposto al Politecnico di Milano di realizzare un corso di laurea in Mobility engegnering», spiega Mazzoncini. Un progetto partito il 22 settembre 2017, con la firma del protocollo di cooperazione firmato da Fs Italiane con il rettore Ferruccio Resta. Il primo step è stato l’avvio del corso “Mobility: infrastructure and services” (in inglese), aperto agli studenti del secondo anno della laurea magistrale in meccanica ed elettrica, primo passo verso il venturo corso di laurea biennale. Il programma, dove lo stesso Mazzoncini figura tra i docenti (il suo compenso è stato girato al Politecnico per finanziare borse di studio) prevede 62 ore di lezione frontali, project work e visite tecniche e il coinvolgimento dei top manager del Gruppo Fs, in testimonianze, docenze e laboratori pratici.

Il manager comunque non si nasconde i problemi che si trova ad affrontare il mondo universitario italiano, schiacciato dalla cronica mancanza di finanziamenti per la ricerca. «In università uno dei problemi principali è l’aspetto della copertura del bilancio. In FS Italiane siamo 74.200 e paghiamo lo stipendio regolarmente a tutti, ogni mese. In università invece hai una fascia garantita, professori ordinari e associati, poi c’è il mondo degli assegnisti e dei ricercatori che vivono con contratti annuali, spesso pagati con fondi che arrivano dalle imprese. Un’insicurezza che porta storture nel sistema. Facciamo un esempio: da un lato c’è un’azienda come FS Italiane che sostiene delle borse di studio per la mobilità, dall’altro hai un settore, magari in crisi (e qundi ancora più bisognoso di fare ricerca) dove non c’è alcuna impresa in grado di dare fondi all’università, il risultato è che la ricerca per quel secondo settore resta indietro. E a perdere è il sistema Paese. Inoltre in questo modo anche il meccanismo meritocratico non viene rispettato». La soluzione, secondo Mazzoncini è una e semplice: aumentare i fondi alla ricerca

Per saperne di più, qui di seguito l’intervista.