A settembre di nuovo con pochi prof

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A settembre di nuovo con pochi prof

A settembre di nuovo con pochi prof. Ed è allarme per il sostegno

Il Miur ha chiesto al ministero delle Finanze 57 mila assunzioni, ma ci sono molti vuoti, soprattutto al Nord. Solo nove regioni su quindici hanno completato i primi percorsi di formazione

di SALVO INTRAVAIA

 

La scuola rischia di ripartire con la solita carenza di docenti. Soprattutto sul sostegno. La macchina ministeriale è in movimento per organizzare l’avvio del prossimo anno scolastico, che per gli insegnanti si apre il primo settembre. Ma diverse questioni devono essere ancora definite. Nel corso di un incontro con i sindacati sono state affrontate quelle più urgenti, senza le quali la stagione partirà in salita.

IMMISSIONI IN RUOLO, IL RITARDO DEI “FIT 1”
Le oltre 57 mila assunzioni in pianta stabile richieste dal ministero dell’Istruzione al dicastero dell’Economia dovrebbero essere autorizzate nei prossimi giorni. I tecnici del Miur hanno fornito i numeri suddivisi per ordine di scuola e per il sostegno. Le 57.322 cattedre dovrebbero essere coperte dai precari storici delle graduatorie provinciali ad esaurimento, dai vincitori dell’ultimo concorso e da coloro che riusciranno a completare il primo percorso Fit (Formazione iniziale e tirocinio) destinato agli abilitati che non figuravano nelle liste ad esaurimento (poi c’è il Fit per i non abilitati, varato dalla ministra Fedeli ma non ancora confermato dal nuovo dicastero guidato da Bussetti). Ma, paradossalmente, non è detto che gli uffici scolastici regionali e gli ex provveditorati agli studi (ora Ambiti territoriali provinciali) riusciranno ad assegnare tutti i posti. Perché le liste dei precari e le graduatorie dei concorsi in parecchi casi sono già vuote o con pochi aspiranti. E su 364 percorsi Fit da attivare ne sono partiti soltanto 310. Entro il 31 agosto prossimo, data limite per fare scattare le assunzioni, solo 9 regioni su 15 hanno comunicato che completeranno i concorsi in questione. E’ quindi probabile che dei 57 mila posti in palio ne verranno assegnati parecchi di meno. E per colmare tutti i vuoti si dovrà ricorrere ai precari di seconda e terza fascia d’istituto. Una situazione particolarmente pesante al Nord, dove si concentra il 60 per cento delle cattedre libere: 34mila in tutto. Al Sud, solo il 22 per cento dei posti: meno di 13 mila cattedre.

EMERGENZA DISABILITA’, VERSO UN NUOVO TFA
Nel corso dell’incontro del 25 luglio scorso, i tecnici ministeriali hanno ammesso che la situazione per il sostegno è piuttosto preoccupante. È molto improbabile che si riesca a coprire con altrettanti aspiranti in possesso di tutti i titoli prescritti i 13 mila posti di sostegno comunicati dal Miur per le immissioni in ruolo. Soprattutto nelle regioni settentrionali, trovare specializzati abilitati nelle graduatorie ad esaurimento e dei concorsi è piuttosto difficile. E dei 13 mila posti disponibili parecchi resteranno senza pretendenti. Anche in questo caso si provvederà con supplenti d’istituto e in non pochi casi anche con docenti non specializzati. È infatti prevista per il 2018-2019 una ulteriore crescita degli alunni disabili e dei posti in deroga (quelli in più rispetto all’organico stabile) e in tanti, anche non specializzati, possono sperare di acciuffare una supplenza per tutta la stagione. L’anno scorso i posti in deroga furono 55 mila, quest’anno si potrebbero superare le 60 mila unità. Per questa ragione il Miur ha in programma un nuovo percorso di specializzazione (Tfa, Tirocinio formativo attivo) da attivare prima possibile.

I DIPLOMATI MAGISTRALI CONFERMATI IN CATTEDRA
La questione dei 5.655 diplomati magistrali assunti senza il requisito principale (l’idoneità a un precedente concorso o un’altra forma di abilitazione) è entrata a pieno titolo nel Decreto dignità che dovrebbe vedere la luce entro il 2 agosto. La nuova formulazione dell’articolo 4 del provvedimento in discussione prevede l’estensione dei 120 giorni di congelamento delle sentenze sfavorevoli (che sancirebbero il licenziamento degli assunti) a tutti, la trasformazione dei contratti a tempo indeterminato in contratti a tempo determinato (al 30 giugno 2019) con la salvaguardia della continuità didattica per il prossimo anno e l’indizione di un concorso straordinario, riservato ai docenti abilitati che abbiano svolto, negli ultimi otto anni scolastici, almeno due stagioni di servizio specifico, anche non continuativo. Nella speranza che gli esclusi non ricorrano in massa al giudice creando ulteriore caos. Il sindacato ricorsificio Anief già li annuncia.

 

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Sergio Marchionne
Sergio Marchionne l’incompreso

Sergio Marchionne l’incompreso

 

La “filosofia Marchionne” ha dato risultati evidenti in Fiat: era un’impresa sull’orlo del fallimento, è ora una solida multinazionale. L’Italia invece l’ha vista come una minaccia e l’ha rigettata. Ma così non si vincono le sfide della globalizzazione.di Fabiano Schivardi (Fonte: Lavoce.info)

Come ha cambiato la Fiat

La filosofia di Sergio Marchionne alla guida di Fiat-Fca può essere riassunta così: la sfida della globalizzazione si può vincere giocandola apertamente, senza sostegno pubblico e senza contare troppo su un mercato domestico ormai aperto alla concorrenza. Ma per farlo è necessario avere gli strumenti gestionali per competere alla pari con una concorrenza agguerrita.

Questa filosofia aveva conseguenze radicali per l’impresa prima di tutto, ma anche per l’Italia in generale. Se per Fca possiamo dire che la sfida è stata vinta, il Paese l’ha invece percepita come una minaccia e, con qualche rara eccezione, l’ha rigettata.

Marchionne ha rivoltato la vecchia Fiat come un calzino. Arrivato in un’impresa tecnicamente fallita e con una proprietà nel mezzo di un difficile passaggio generazionale, ha fatto piazza pulita di pratiche gestionali ormai vecchie e di un rapporto con lo stato basato su scambi sussidi-occupazione. Queste caratteristiche, funzionali nel mercato relativamente protetto del secondo dopoguerra, erano diventate una pietra al collo in quello competitivo e con lo stato meno invasivo (e più squattrinato) degli anni Novanta. Ma per cambiare una mentalità così radicata ci voleva un rivoluzionario. Il merito della proprietà è stato quello di individuarlo in Marchionne, allora una figura relativamente nuova nell’universo Fiat, e dargli carta bianca.

In questi giorni, decine di articoli hanno ripercorso i suoi 14 anni alla guida del gruppo. Non mi dilungo a raccontarli di nuovo. Ricordo solo due passaggi particolarmente interessanti. Il primo riguarda la decisione di chiudere l’impianto di Termini Imerese, giudicato economicamente insostenibile. L’allora ministro Sacconi propose implicitamente il vecchio scambio: un prolungamento degli incentivi alla rottamazione in cambio del mantenimento dell’impianto siciliano. La risposta di Marchionne fu no: un’impresa che compete su mercati internazionali non può permettersi di avere impianti strutturalmente in perdita. Questa logica, quasi banale nella sua semplicità, rappresentò una rottura epocale nei rapporti fra politica e impresa. Fiat smetteva di contare sull’aiuto pubblico, ma anche di farsi carico di obiettivi che sono propri dello stato, come promuovere lo sviluppo in certe aree del paese. Fu uno shock la cui importanza è ancora poco compresa.

Il secondo, più noto, è l’uscita dal sistema di contrattazione collettiva e la stipula di contratti aziendali. La scelta rifletteva la necessità di governabilità degli impianti. Fca si impegnava a rinnovare le fabbriche, adottando tecniche gestionali all’avanguardia. Ma queste tecniche richiedevano nuovi rapporti con i lavoratori, in particolare che garantissero la certezza di quanto contrattato (l’esigibilità dei contratti). Dato che il sistema di contrattazione collettiva non garantiva queste condizioni, Fca l’ha abbandonato, uscendo da Confindustria e, anche in questo caso, rompendo una consuetudine congenita alla vecchia Fiat.

Ma il paese non l’ha seguito

I risultati della “filosofia Marchionne” sono evidenti. La vecchia Fiat, sulla quale aveva l’autorità per imporla, l’ha abbracciata, compresa la maggioranza dei lavoratori italiani che ha votato nei referendum sui contratti. Marchionne ha dimostrato coi fatti che la sfida si può vincere. Un’impresa allora sull’orlo del fallimento è oggi una multinazionale solida e ben posizionata sulle due sponde dell’Atlantico, con una serie di marchi che hanno spostato il baricentro sul segmento premium. Il “piano Marchionne” non è stato completamente portato a termine. Mancano in particolare un’ulteriore aggregazione, per superare la quota minima di 6 milioni di veicoli che lui stesso aveva stabilito, e un rafforzamento della presenza nel mercato più dinamico del mondo, l’Asia. Ma sono dettagli rispetto al quadro d’insieme: la svolta di Fiat entrerà sicuramente a far parte dei casi di successo studiati nelle business school di tutto il mondo.

Il paese ha invece rigettato la “filosofia Marchionne”. Non credo che il suo obiettivo fosse di modernizzare l’Italia: a lui interessava rilanciare Fiat. Ma sicuramente sperava che il suo progetto diventasse contagioso. Da qui lo stupore, prima, e l’amarezza, poi, di fronte alle critiche contro la sua gestione. E il conseguente disimpegno dal dibattito italiano (e forse, lo spostamento del baricentro di Fca fuori dal paese). Ci ha messo un po’, ma quando l’ha capito, ne ha preso atto: in Italia è maggioritaria la quota di persone che pensa che la sfida della globalizzazione si possa vincere per decreto.

 

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Maturità 2018, siete delusi dal vostro voto?

Maturità 2018, siete delusi dal vostro voto? Istruzioni per preparare la rivincita

Se è’ andata male, ora potrà solo migliorare. Chi è uscito trionfalmente dalla maturità ha solo rinviato l’appuntamento con la sua quota di delusioni

Sì, poteva andare meglio. E’ uno sguardo imbambolato quello che scivola sul tabellone, con quei numeretti già letti una ventina di volte accanto a nomi cristallizzati da un lustro di appelli. Sicuramente il voto finale non è quello che ti aspettavi, neanche parente di quello sperato dai tuoi o generosamente immaginato dagli amici. Ma dai, la maturità è andata, non è il caso di farne un dramma. Sei stato promosso, in fondo. Certo per essere respinto avresti dovuto dare uno schiaffo al presidente di commissione e essere sicuro di prenderlo perché con una mezza cilecca qualche possibilità potevi ancora giocartela.

Pensa a quella candidata che alla domanda su chi era Gabriele D’Annunzio, ha risposto perentoria “un estetista”. E smettete di avere in testa quello scemo del terzo banco che ha preso 95. Ecco, siete immersi in una palude appiccicosa che si chiama delusione. Che rischia di rimanervi addosso scolorendo gli orizzonti della prima e forse unica estate della vita che può spingersi fino a ottobre inoltrato. E il peggio in tutta questa mestizia è che non prevede prediche o rimproveri, ma sorde litanie di rassegnazione con gestualità annessa. Se avete finito di piangervi addosso è il momento di ribellarvi. La delusione non è il contrario della speranza, ma la sua base di partenza più solida. E’ andata male, ora potrà solo migliorare.

Essere disillusi è una condizione ideale per affrontare le prossime sfide con i piedi ben saldi a terra. A questo dovete unire l’ingrediente segreto per trasformare una delusione nell’arma vincente della vostra rivincita. Si chiama consapevolezza. Gli unici colpevoli del fallimento siete voi, prima lo accettate meglio sarà. Incolpare la sorte, il tale prof, la sventura è una infinita e inutile perdita di tempo. Uno studio più costante, una vita appena appena più regolata, qualche concessione in più al riposo, accettare aiuti là dove da soli non si arriva facilmente: ecco, sono medicine capaci di effetti miracolosi. Non hanno bisogno di medici (o parenti) che le prescrivano. Tanto se non siete convinti voi non funzioneranno mai.

Non solo: la quota di amarezza e sconforto che la vita decide di regalarci è diversa per ognuno di noi, così come gioie e conquiste, ma alla lunga, sui grandi numeri quelle oscillazioni si avvicinano e il peso del bagaglio di scontentezza che ci tocca finisce per somigliarsi. Alla lunga. Se osservate la realtà per via breve, avete già dato. Chi è uscito trionfalmente dalla maturità ha solo rinviato l’appuntamento con la sua quota di delusioni. E avete finalmente capito cosa dire a quello scemo del terzo banco che ha preso 95. «Poveretto!».

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Le università nel Nord piacciono

Le università nel Nord piacciono di più. E il 70% dei neolaureati trova subito lavoro

 

Il rapporto  di Almalaurea: Il 97% di chi abita nelle regioni settentrionali resta a studiare vicino casa, il 25% di chi vive al Sud emigra negli atenei del Centro e Alta Italia. Per la prima volta la maggior parte dei laureati è in corso

di CORRADO ZUNINO

 

 

Il 97,4 per cento dei ragazzi diciannovenni cresciuti nel Nord dell’Italia, dopo il diploma sceglie un ateneo della sua area geografica. E di quel 2,6 per cento che si sposta, solo lo 0,5 – un diplomato ogni duecento – sceglie un’università meridionale. Al contrario, quasi un quarto dei diplomati del Sud (il 23,9 per cento) emigra nell’Italia centrale e settentrionale (metà e metà) per continuare gli studi nell’alta formazione.

Il rapporto 2018 del consorzio universitario Almalaurea, “Sul profilo occupazionale e sulla condizione dei laureati”, 630 mila soggetti presi in considerazione, dice che l’esodo per lo studio è forte e continuo nel nostro Paese, come già aveva sottolineato la Flc Cgil.
Che gli atenei del Nord abbiano la migliore fama è dimostrato da altri due dati. Gli emigranti del Centro Italia (il 10,9 per cento in tutto) in tre casi su quattro scelgono le accademie settentrionali. E così coloro che hanno studiato in scuole superiori straniere: in oltre il 90 per cento dei casi, rientrando in Italia, continuano gli studi al Centro-Nord.

Alla ricerca della loro triennale o magistrale gli studenti italiani si spostano. Sono la maggioranza: il 53,8 per cento del totale degli iscritti (gli anni presi in esame sono il 2012, il 2014 e il 2016). Un quarto dei diciannovenni cambia solo provincia (25,5 per cento), un ottavo (il 12,5 per cento) si sposta ma resta nell’area geografica di appartenenza (Nord, Centro o Sud) e un altro ottavo (il 12,5 per cento) fa un viaggio lungo, verso un’altra area geografica. Poi c’è un 3,1 per cento che si diploma all’estero e, abbiamo visto, sceglie un’università italiana.

I MIGRANTI CULTURALI
A spostarsi sono più frequentemente i ragazzi che hanno un background socio-culturale più elevato: il 36,1 per cento di chi ha compiuto migrazioni di lungo raggio ha almeno un genitore laureato contro il 28,3 per cento di chi è rimasto nella stessa ripartizione geografica. Tendenze simili si rilevano analizzando il percorso scolastico precedente: chi ha cambiato area per motivi di studio aveva ottenuto un voto medio di diploma di 83/100 contro 80,8/100 di chi è rimasto nell’ambito dell’adolescenza.

Secondo l’Organizzazione per lo sviluppo economico, l’Italia è all’ottavo posto tra i Paesi Ocse per attrattività del sistema universitario di secondo e terzo livello: su cento studenti mobili, 2,6 scelgono l’Italia. La quota di laureati di cittadinanza estera è del 3,5 per cento quando nel 2007 era del 2,6. Molto è dovuto ai figli di immigrati che sono andati a scuola in Italia. Non a caso il 12,9 per cento è cittadino albanese, l’11,2 per cento rumeno.

LAUREATI UN ANNO PRIMA
Dal 2007 ad oggi, cioè da quando è stata varata la Riforma Berlinguer dell’università italiana, la cosiddetta “3+2”, l’età media di laurea è scesa di un anno: da 27 a 26. Nel 2016 era pari a 26,1 anni. Per i laureati di primo livello (tre anni) il titolo arriva mediamente a 24,8 anni, per i magistrali a ciclo unico a 27 anni, per i laureati magistrali biennali a 27,4.

Anche la regolarità negli studi è migliorata in questo decennio. Se nel 2007 il 37,9 per cento dei laureati concludeva gli studi in corso, nel 2017 la percentuale ha raggiunto il 51,1, ed è la prima volta che più della metà degli universitari italiani è in corso rispetto al piano originario. Se dieci anni fa a terminare gli studi con quattro o più anni fuori corso erano 17,4 laureati su cento, oggi si sono quasi dimezzati: il 9,8 per cento. Il voto medio di laurea – 102,7 su 100 – è sostanzialmente invariato.

ESPERIENZE ALL’ESTERO PER UNO SU DIECI
L’11,1 per cento dei laureati del 2017 ha svolto esperienze di studio all’estero riconosciute dal corso di studi (era il 7,9 per cento nel 2007): l’8,8 per cento ha utilizzato programmi dell’Unione europea, Erasmus in primo luogo. L’8,8 per cento del complesso dei laureati ha sostenuto esami all’estero poi convalidati al rientro e il 4,7 per cento ha preparato fuori Italia una parte significativa della tesi.

Dal Rapporto emerge la figura di un universitario che vanta apprezzabili conoscenze linguistiche: la quota dei laureati 2017 con una conoscenza “almeno buona” dell’inglese scritto è pari al 76,1 per cento e raggiunge l’81,3 tra i laureati magistrali biennali. E il 57,9 per cento ha compiuto un’esperienza di tirocinio curriculare o stage riconosciuta dal corso di studi (era il 50,8 dieci anni fa).

In generale l’88,1 per cento si dichiara complessivamente soddisfatto dell’esperienza universitaria appena conclusa (nel 2007 era l’87,1).

OCCUPATI DOPO UN ANNO
A un anno dal titolo il tasso di occupazione è pari al 71,1 per cento tra i laureati di primo livello e al 73,9 per cento tra i magistrali biennali. Il confronto con le precedenti rilevazioni evidenzia un miglioramento del tasso di occupazione che, nell’ultimo quadriennio, è aumentato di 5,4 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 3,8 punti per i magistrali biennali. Questi tassi non sono ancora in grado di colmare la significativa contrazione del tasso di occupazione intervenuta tra il 2008 e il 2013 (-17,1 punti percentuali per i laureati triennali).

La retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è, in media, pari a 1.107 euro per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali biennali. Nell’ultimo quadriennio le retribuzioni reali percepite dai laureati a un anno risultano in crescita: +9,7 per cento per i laureati di primo livello.

A cinque anni dalla laurea lavora all’estero il 6,6 per cento dei magistrali biennali di cittadinanza italiana (quota stabile rispetto al 2016, +0,6 punti percentuali rispetto al 2013). Chi decide di spostarsi all’estero per motivi lavorativi risulta “mediamente più brillante” (voti negli esami e regolarità negli studi) rispetto a chi decide di rimanere in Italia a lavorare. A cinque anni dal conseguimento del titolo magistrale, l’83,3 per cento degli occupati all’estero lavora in Europa.

 

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