Maturità 2019: Le ultimissime dal MIUR

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Maturità 2019: Le ultimissime dal MIUR

Maturità 2019: Le ultimissime dal MIUR

Di Andrea Carlino

I temi dell’alternanza scuola/lavoro e delle prove Invalsi sono sempre all’attenzione dell’opinione pubblica. Nelle intenzioni del ministro Marco Bussetti i due aspetti, tra i più contestati della Buona Scuola, devono essere ampiamente rivisti.

Ministro Bussetti: “Profonda riflessione su Invalsi”

A Radio Capital, Bussetti ha ribadito che si cambierà qualcosa su entrambi i fronti: “Profonde riflessioni sull’Invalsi. Il tema è la valutazione generale, che non può avere riferimenti di tipo oggettivo senza considerare contesti e culture. L’attenzione alle persone è fondamentale“.Lunedì scorso, a Il Messaggero, Bussetti era stato ancora più chiaro sull’argomento: “Le prove Invalsi si faranno, ma non saranno prescrittive ai fini dell’esame di Stato. Anche questo rinvio è una decisione di buon senso. Ci sarebbe stata, per la prima volta, una prova di inglese che gli studenti avrebbero affrontato senza avere mai avuto il tempo di sperimentare. Assurdo. La prova rimane come rilevazione degli apprendimenti, come valutazione di sistema. E poi sì, bisogna pensare anche ad altre forme di valutazione non solo degli apprendimenti ma delle soft skills (le capacità personali nell’affrontare problemi e difficoltà, ndr) come fanno molti Paesi dell’Ocse

Alternanza scuola lavoro: attenzione alla qualità

Sull’Alternanza scuola/lavoro, invece, per Bussetti è “un prezioso strumento di acquisizione di competenze. La vorrei qualificata, più mirata e più attenta”.

E sempre a Il Messaggero, Bussetti aveva aggiunto: “Fare esperienze di alternanza è molto importante. Per orientarsi sia nel mondo del lavoro sia nelle università. Tuttavia dobbiamo ricordare che l’Italia è molto variegata. Esistono territori con profonde differenze. Le esperienze che si possono fare nelle grandi città non possono essere fatte nelle campagne. Per questo è giusto dare un numero minimo di ore di alternanza da fare e contare sull’autonomia piena delle scuole. Ciascuna scuola potrà scegliere il percorso di alternanza e la durata con un numero minimo di ore di base. E ovviamente bisognerà sostenerle. Non è la quantità ad essere importante, ma la qualità dei percorsi“.

Interventi nel decreto Milleproroghe

Il Miur conta di intervenire fin da subito sui due argomenti. Come già segnalato da Skuola.net nei giorni scorsi, i primi interventi saranno contenuti nel decreto Milleproroghe, già approvato dal Senato e in esame alla Camera. L’alternanza, per ora, non sarà un requisito per l’ammissione alla maturità. Già nell’emendamento, su cui c’è accordo nella maggioranza, si fa slittare l’entrata in vigore della misura di un altro anno, poi ci sarà il restyling annunciato dal ministro Bussetti con la riduzione delle ore e la probabile definitiva uscita dai requisiti per i maturandi. Stessa sorte per le prove Invalsi che, nel 2018/2109, debuttano in quinta superiore: la partecipazione ai temuti test in italiano, matematica e inglese, diventa requisito d’accesso alla maturità ma non subito, bensì dall’anno successivo, cioè dal 2019/2020.

 

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Catastrofe culturale: studenti abbandonano la scuola

Catastrofe culturale: studenti abbandonano la scuola

 

Anticipiamo in esclusiva i dati elaborati dal dossier Tuttoscuola: ogni anno più di 150mila ragazzi lasciano le aule. I numeri impressionanti di un fallimento sociale ma anche economico. Tutti i dati dell’emergenza su L’Espresso in edicola da domenica 9 settembre

di Francesca Sironi

 

A giorni le classi saranno formate, gli zaini pronti, 590 mila ragazzi inizieranno le scuola superiori. Evviva. Ma uno di loro su quattro non arriverà al diploma. Dirà addio agli studi prima di averli portati a termine. Un dossier della rivista specializzata Tuttoscuola che L’Espresso può anticipare in esclusiva mostra come l’Italia abbia perso lungo la strada tre milioni e mezzo di studenti, dal 1995 a oggi. È una voragine: il 30,6 per cento degli iscritti è scomparso prima di raggiungere il traguardo. Certo, in questi vent’anni sono stati alzati argini, spesso grazie a iniziative esterne, di volontari e associazioni. E il tasso di abbandono scolastico è diminuito: nel 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori 151mila ragazzi, il 24,7 per cento del totale, contro il 36,7 del duemila. È un miglioramento, ma non una vittoria.

Perché l’incuria intorno e lo sconforto interno che portano gli adolescenti a far cadere i libri prima di averli compresi, sono gli stessi spettri che rischiano poi di trattenerli a lungo in quella macchia che è la conta dei Neet, dei giovani che non studiano né lavorano: il vuoto lattiginoso dentro cui è chiuso un ventenne su tre al Sud. «Si può evitare questa immane, ennesima catastrofe culturale, economica e sociale, che avviene proprio davanti ai nostri occhi disattenti e rassegnati?», si chiede Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, introducendo il dossier, “La scuola colabrodo”: «Per farlo di sicuro bisogna partire dal sistema scolastico».

A rafforzare l’urgenza del tema possono essere i conti. Tuttoscuola li ha fatti, in denaro: ha calcolato quanto ci costa questo spreco generazionale. Partendo dalla stima Ocse per cui lo Stato investe poco meno di settemila euro l’anno a studente, per l’istruzione secondaria, il costo degli abbandoni si misura allora in cinque miliardi e 520 milioni solo considerando i cicli scolastici 2009-2014 e 2014-2018. Cinque miliardi bruciati in nove appelli d’inizio settembre. Ancora non importa a nessuno, questo spreco? Guardando ai vent’anni presi in considerazione dal dossier, la cifra diventa addirittura vertiginosa: 55,4 miliardi di euro.

È la misura di un fallimento sociale, oltre che economico, enorme. E che ne racchiude altri, perché come ricorda il rapporto, più istruzione significa anche più lavoro, più salute, più democrazia. Mentre lasciar seccare l’insegnamento, e la sua copertura, significa togliere strumenti e possibilità agli attuali e prossimi cittadini, quindi all’Italia come paese. Sull’Espresso in edicola il 9 settembre tutti i dati del rapporto insieme alle riflessioni e alle proposte di chi si occupa di dispersione scolastica. Oltre a un focus sull’altro aspetto della fuga: quella dei neo-laureati che cercano un futuro solo all’estero.

 

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Scuola, stangata al ritorno dalle vacanze

Scuola, stangata al ritorno dalle vacanze: 1000 euro per libri, zaini e astucci

La denuncia delle associazioni dei consumatori. Oltre 500 euro solo per il corredo scolastico, a cui se ne aggiungono altrettanti per i testi scolastici. I consigli per risparmiare

 

La riapertura delle scuole si avvicina e i genitori si preparano a pagare un conto molto salato per il materiale scolastico dei propri figli. La cifra, secondo le associazioni dei consumatori, può superare anche i mille euro se si considera sia il corredo scolastico sia i libri.

Secondo i calcoli di Federconsumatori, quest’anno costerà intorno ai 526 euro il corredo scolastico per ogni singolo studente, con un incremento dello 0,8% rispetto al 2017. Nella classifica degli aumenti quest’anno il primo posto spetta agli astucci e diari legati ai beniamini dei cartoni animati, mentre per i libri e 2 dizionari i genitori dovranno sborsare poco più di 456 euro a ragazzo, vale a dire l’1,1% in meno rispetto all’anno scorso.

Più pesanti gli aumenti per astucci, zaini e materiale scolastico e anche per i libri di testo secondo il Codacons: nei negozi e nei supermercati di tutta Italia già da giorni è comparso tutto l’occorrente per la scuola – ricorda l’associazione – si va da diari e quaderni “low cost” a zaini e astucci griffatissimi con le marche del momento, sempre più richieste dai giovanissimi. In base alle prime stime l’associazione per i diritti dei consumatori calcola per il corredo scolastico (penne, diari, quaderni, zaini, astucci, ecc.) rispetto al 2017, un incremento medio del +2%, rincaro che raggiunge il +4% per il materiale “griffato”, ossia le marche più richieste dai giovanissimi perché legate a squadre sportive, cartoni animati, bambole o personaggi e serie famosi.

Il prezzo di uno zaino di marca raggiunge i 120 euro, mentre per un astuccio griffato attrezzato (con penna, matita, gomma da cancellare e pennarelli) la spesa arriva quest’anno a 40 euro – analizza il Codacons – Altra voce che incide sulla spesa per il corredo è quella relativa al diario, che sfiora i 20 euro per le marche più note. L’esborso per il materiale scolastico completo raggiungerà durante l’anno scolastico 2018/2019 – secondo l’associazione – quota 520 euro a studente su base annua, cui va aggiunto il costo per libri di testo, altra voce che inciderà pesantemente sui portafogli delle famiglie italiane, variabile a seconda del grado di istruzione e della scuola. Contrariamente a Federconsumatori, che parla di un leggero risparmio per l’acquisto dei testi scolastici, il Codacons smentisce la possibilità di sensibili riduzioni e anzi si prevede un esborso economico maggiore a carico delle famiglie rispetto lo scorso anno scolastico.

Per questo, tra corredo e libri di testo – denuncia il Codacons – la spesa complessiva può facilmente superare i 1.100 euro a studente, una vera e propria stangata per le tasche degli italiani.

Tuttavia – spiega l’associazione – anche sulla spesa scolastica è possibile risparmiare sensibilmente e abbattere i costi del 40% seguendo alcuni consigli. Prima di tutto non inseguendo le mode, e acquistando prodotti di identica qualità a quello dei marchi più famosi, si possono abbattere le spese del 40%. Scegliendo di acquistare i prodotti nei supermercati si può arrivare a risparmiare fino al 30% rispetto alla cartolibreria, mentre rinviare gli acquisti a un momento successivo all’inizio delle scuole può significare altri notevoli risparmi. Infine, raccomanda ancora il Codacons, spesso è utle attendere le indicazioni dei professori, così da evitare acquisti superflui o carenti.

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Maturità 2019

Maturità 2019

Ritorno a scuola nell’incertezza. Bussetti: “Tutte le novità entro settembre”

Di certo c’è solo una data: il 19 giugno, giorno della prova scritta di Italiano. Il ministro rassicura, ma gli studenti chiedono chiarezza

di SALVO INTRAVAIA

Per la prima volta, i 500mila studenti dell’ultimo anno delle superiori che si apprestano a rientrare in classe non sanno con quale formula affronteranno gli esami di maturità. Il governo Lega-5Stelle intende mettere mano anche alla prossima maturità. A sparigliare le carte, una intervista del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti alla Stampa dei giorni scorsi che anticipa novità sui prossimi esami di stato. “E’ un lavoro – spiega l’inquilino di viale Trastevere – che stiamo facendo con gli uffici del ministero. Lo dettaglieremo a decisioni prese e, comunque, entro settembre. L’esame è sempre un tema delicato che mette in fibrillazione ragazzi e famiglie”.Secondo la normativa vigente, la maturità 2019, che prederà il via mercoledì 19 giugno 2019 con la prova scritta di Italiano, si svolgerà secondo le novità introdotte con la Buona scuola bis. E per la precisione: due sole prove scritte, mandando in soffitta la terza prova spesso sotto forma di quizzone a risposte aperte e chiuse; rivoluzione dei punteggi, con 40 centesimi destinati alla carriera scolastica e 20 centesimi per ciascuna prova scritta e per il colloqui; introduzione di un test Invalsi obbligatorio per essere ammessi agli esami, da svolgersi entro il mese di aprile; abolizione della tesina di apertura del colloquio che verrà sostituita da una prova sull’alternanza scuola-lavoro.

Ma, a questo punto, come si svolgeranno i prossimi esami di maturità? Secondo le regole nuove, che diventano vecchie al cospetto delle modifiche ventilate da Bussetti, o seguendo una procedura ancora diversa? L’esame di maturità, negli ultimi anni, è stato al centro delle polemiche per due ragioni: i troppi cervelloni che si diplomano con 100 e lode al Sud e la scarsa selezione di una procedura che, tra compensi ai commissari e costi collegati alle prove d’esame, costa quasi mezzo miliardo di euro all’anno. Col risultato di un “todos caballeros”: tutti promossi. Gli esami conclusi lo scorso mese di luglio hanno dato il seguente verdetto: 99,6 per cento di promossi e “solo” 4 bocciati ogni mille candidati. A svolgere il lavoro sporco sono i consigli di classe, che quest’anno non hanno ammesso 4 ragazzi su cento. L’esame è poi una formalità che tuttavia crea sempre un certo patema d’animo a studenti e genitori. Cui quest’anno si aggiunge l’incertezza delle regole.

“Il fatto che a oggi non ci siano certezze su come verrà strutturato l’esame di maturità rappresenta il nodo problematico di fondo, laddove – dichiara Giulia Biazzo, dell’Unione degli studenti – non si dà alle studentesse e agli studenti un’aspettativa e certezze rendendo più incerto tutto il quadro dei prossimi esami di stato. Come del resto su molti aspetti della scuola italiana”. Le rappresentanze studentesche avevano già criticato la riforma Renzi, soprattutto sugli aspetti che riguardano il quizzone Invalsi, senza svolgere il quale non si potrà accedere agli esami, e il ruolo dell’Alternanza scuola-lavoro, con l’obbligo di avere svolto tutte le 200/400 ore perviste per i liceali e gli studenti dei tecnici e dei professionali, e l’obbligo di relazionare agli esami sull’esperienza svolta. Ma adesso la polemica si è spostata sull’eventuale cambio in corso d’opera annunciato dal governo giallo-verde

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Vaccini, i presidi non saranno responsabili delle autocertificazioni false

Vaccini, i presidi non saranno responsabili delle autocertificazioni false

Il ministro Bussetti ha incontrato le organizzazioni sindacali che rappresentano i dirigenti. “Eventuali responsabilità ricadono esclusivamente sugli autori”

di GIORGIA PACINO

 

 

Gli unici responsabili saranno i genitori. Come la mamma no vax che si è vantata sui social di aver falsificato il certificato vaccinale della figlia, poi denunciata dalla scuola, così in caso di autocertificazioni false a risponderne saranno soltanto gli autori. E non anche i presidi.

La precisazione arriva del Miur, dove oggi il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha incontrato le organizzazioni sindacali dei dirigenti scolastici. “Il ministro ci ha garantito che le eventuali responsabilità connesse ad autocertificazioni non veritiere ricadranno esclusivamente sugli autori delle stesse”, conferma il presidente dell’Associazione nazionale presidi Antonello Giannelli. “Ribadiamo, tuttavia, la posizione da noi già espressa nei giorni scorsi relativamente all’obbligo di vaccinazione e al rischio di ammettere nelle scuole i bambini non vaccinati”, puntualizza. “Ritengo che si debbano accettare le autocertificazioni solo ed esclusivamente laddove le Asl non siano in grado di rilasciare le certificazioni, circostanza che i genitori dovranno dichiarare sotto la propria responsabilità”.

Risale a inizio agosto la dura presa di posizione dei presidi. Nonostante la decisione del governo di rinviare al prossimo anno scolastico l’obbligatorietà delle vaccinazioni, a settembre sarà ancora in vigore il decreto Lorenzin. L’Anp si è detto più volte contrario all’idea di permettere la frequenza scolastica negli asili nido e nelle scuole materne in assenza del certificato dell’Asl e ha respinto anche l’idea di classi differenziate per i bambini immunodepressi. “Finché resta in vigore l’attuale legge sugli obblighi vaccinali, per garantire la tutela della salute di tutti i bambini e in particolare di quelli immunodepressi, dovranno essere effettuati i controlli previsti”, aggiunge Giannelli.

Quello di oggi è stato il primo di una serie di confronti tecnici che, precisa il Miur, “ci saranno a partire dalla prossima settimana, sia per garantire il regolare avvio dell’anno scolastico sia per affrontare i temi più generali e specifici del mondo della scuola”.

“Per la scuola l’accoglienza costituisce una condizione essenziale per poter svolgere efficacemente il suo compito di istruire, educare e formare. Non può essere tuttavia caricata di incombenze improprie, per le quali non ha titolo e competenza, né si può chiedere alle istituzioni scolastiche di supplire a carenze di altri soggetti”, precisa Maddalena Gissi, segretaria generale della Cisl Scuola. “La questione vaccini è in sé molto delicata. Guai se a prevalere sono polemiche strumentali e di corto respiro, tutto ciò alimenta divisioni e tensioni che purtroppo si stanno manifestando anche fra le famiglie degli alunni. Servono interventi che restituiscano alle nostre scuole chiarezza e serenità”.
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A settembre di nuovo con pochi prof

A settembre di nuovo con pochi prof. Ed è allarme per il sostegno

Il Miur ha chiesto al ministero delle Finanze 57 mila assunzioni, ma ci sono molti vuoti, soprattutto al Nord. Solo nove regioni su quindici hanno completato i primi percorsi di formazione

di SALVO INTRAVAIA

 

La scuola rischia di ripartire con la solita carenza di docenti. Soprattutto sul sostegno. La macchina ministeriale è in movimento per organizzare l’avvio del prossimo anno scolastico, che per gli insegnanti si apre il primo settembre. Ma diverse questioni devono essere ancora definite. Nel corso di un incontro con i sindacati sono state affrontate quelle più urgenti, senza le quali la stagione partirà in salita.

IMMISSIONI IN RUOLO, IL RITARDO DEI “FIT 1”
Le oltre 57 mila assunzioni in pianta stabile richieste dal ministero dell’Istruzione al dicastero dell’Economia dovrebbero essere autorizzate nei prossimi giorni. I tecnici del Miur hanno fornito i numeri suddivisi per ordine di scuola e per il sostegno. Le 57.322 cattedre dovrebbero essere coperte dai precari storici delle graduatorie provinciali ad esaurimento, dai vincitori dell’ultimo concorso e da coloro che riusciranno a completare il primo percorso Fit (Formazione iniziale e tirocinio) destinato agli abilitati che non figuravano nelle liste ad esaurimento (poi c’è il Fit per i non abilitati, varato dalla ministra Fedeli ma non ancora confermato dal nuovo dicastero guidato da Bussetti). Ma, paradossalmente, non è detto che gli uffici scolastici regionali e gli ex provveditorati agli studi (ora Ambiti territoriali provinciali) riusciranno ad assegnare tutti i posti. Perché le liste dei precari e le graduatorie dei concorsi in parecchi casi sono già vuote o con pochi aspiranti. E su 364 percorsi Fit da attivare ne sono partiti soltanto 310. Entro il 31 agosto prossimo, data limite per fare scattare le assunzioni, solo 9 regioni su 15 hanno comunicato che completeranno i concorsi in questione. E’ quindi probabile che dei 57 mila posti in palio ne verranno assegnati parecchi di meno. E per colmare tutti i vuoti si dovrà ricorrere ai precari di seconda e terza fascia d’istituto. Una situazione particolarmente pesante al Nord, dove si concentra il 60 per cento delle cattedre libere: 34mila in tutto. Al Sud, solo il 22 per cento dei posti: meno di 13 mila cattedre.

EMERGENZA DISABILITA’, VERSO UN NUOVO TFA
Nel corso dell’incontro del 25 luglio scorso, i tecnici ministeriali hanno ammesso che la situazione per il sostegno è piuttosto preoccupante. È molto improbabile che si riesca a coprire con altrettanti aspiranti in possesso di tutti i titoli prescritti i 13 mila posti di sostegno comunicati dal Miur per le immissioni in ruolo. Soprattutto nelle regioni settentrionali, trovare specializzati abilitati nelle graduatorie ad esaurimento e dei concorsi è piuttosto difficile. E dei 13 mila posti disponibili parecchi resteranno senza pretendenti. Anche in questo caso si provvederà con supplenti d’istituto e in non pochi casi anche con docenti non specializzati. È infatti prevista per il 2018-2019 una ulteriore crescita degli alunni disabili e dei posti in deroga (quelli in più rispetto all’organico stabile) e in tanti, anche non specializzati, possono sperare di acciuffare una supplenza per tutta la stagione. L’anno scorso i posti in deroga furono 55 mila, quest’anno si potrebbero superare le 60 mila unità. Per questa ragione il Miur ha in programma un nuovo percorso di specializzazione (Tfa, Tirocinio formativo attivo) da attivare prima possibile.

I DIPLOMATI MAGISTRALI CONFERMATI IN CATTEDRA
La questione dei 5.655 diplomati magistrali assunti senza il requisito principale (l’idoneità a un precedente concorso o un’altra forma di abilitazione) è entrata a pieno titolo nel Decreto dignità che dovrebbe vedere la luce entro il 2 agosto. La nuova formulazione dell’articolo 4 del provvedimento in discussione prevede l’estensione dei 120 giorni di congelamento delle sentenze sfavorevoli (che sancirebbero il licenziamento degli assunti) a tutti, la trasformazione dei contratti a tempo indeterminato in contratti a tempo determinato (al 30 giugno 2019) con la salvaguardia della continuità didattica per il prossimo anno e l’indizione di un concorso straordinario, riservato ai docenti abilitati che abbiano svolto, negli ultimi otto anni scolastici, almeno due stagioni di servizio specifico, anche non continuativo. Nella speranza che gli esclusi non ricorrano in massa al giudice creando ulteriore caos. Il sindacato ricorsificio Anief già li annuncia.

 

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Sergio Marchionne
Sergio Marchionne l’incompreso

Sergio Marchionne l’incompreso

 

La “filosofia Marchionne” ha dato risultati evidenti in Fiat: era un’impresa sull’orlo del fallimento, è ora una solida multinazionale. L’Italia invece l’ha vista come una minaccia e l’ha rigettata. Ma così non si vincono le sfide della globalizzazione.di Fabiano Schivardi (Fonte: Lavoce.info)

Come ha cambiato la Fiat

La filosofia di Sergio Marchionne alla guida di Fiat-Fca può essere riassunta così: la sfida della globalizzazione si può vincere giocandola apertamente, senza sostegno pubblico e senza contare troppo su un mercato domestico ormai aperto alla concorrenza. Ma per farlo è necessario avere gli strumenti gestionali per competere alla pari con una concorrenza agguerrita.

Questa filosofia aveva conseguenze radicali per l’impresa prima di tutto, ma anche per l’Italia in generale. Se per Fca possiamo dire che la sfida è stata vinta, il Paese l’ha invece percepita come una minaccia e, con qualche rara eccezione, l’ha rigettata.

Marchionne ha rivoltato la vecchia Fiat come un calzino. Arrivato in un’impresa tecnicamente fallita e con una proprietà nel mezzo di un difficile passaggio generazionale, ha fatto piazza pulita di pratiche gestionali ormai vecchie e di un rapporto con lo stato basato su scambi sussidi-occupazione. Queste caratteristiche, funzionali nel mercato relativamente protetto del secondo dopoguerra, erano diventate una pietra al collo in quello competitivo e con lo stato meno invasivo (e più squattrinato) degli anni Novanta. Ma per cambiare una mentalità così radicata ci voleva un rivoluzionario. Il merito della proprietà è stato quello di individuarlo in Marchionne, allora una figura relativamente nuova nell’universo Fiat, e dargli carta bianca.

In questi giorni, decine di articoli hanno ripercorso i suoi 14 anni alla guida del gruppo. Non mi dilungo a raccontarli di nuovo. Ricordo solo due passaggi particolarmente interessanti. Il primo riguarda la decisione di chiudere l’impianto di Termini Imerese, giudicato economicamente insostenibile. L’allora ministro Sacconi propose implicitamente il vecchio scambio: un prolungamento degli incentivi alla rottamazione in cambio del mantenimento dell’impianto siciliano. La risposta di Marchionne fu no: un’impresa che compete su mercati internazionali non può permettersi di avere impianti strutturalmente in perdita. Questa logica, quasi banale nella sua semplicità, rappresentò una rottura epocale nei rapporti fra politica e impresa. Fiat smetteva di contare sull’aiuto pubblico, ma anche di farsi carico di obiettivi che sono propri dello stato, come promuovere lo sviluppo in certe aree del paese. Fu uno shock la cui importanza è ancora poco compresa.

Il secondo, più noto, è l’uscita dal sistema di contrattazione collettiva e la stipula di contratti aziendali. La scelta rifletteva la necessità di governabilità degli impianti. Fca si impegnava a rinnovare le fabbriche, adottando tecniche gestionali all’avanguardia. Ma queste tecniche richiedevano nuovi rapporti con i lavoratori, in particolare che garantissero la certezza di quanto contrattato (l’esigibilità dei contratti). Dato che il sistema di contrattazione collettiva non garantiva queste condizioni, Fca l’ha abbandonato, uscendo da Confindustria e, anche in questo caso, rompendo una consuetudine congenita alla vecchia Fiat.

Ma il paese non l’ha seguito

I risultati della “filosofia Marchionne” sono evidenti. La vecchia Fiat, sulla quale aveva l’autorità per imporla, l’ha abbracciata, compresa la maggioranza dei lavoratori italiani che ha votato nei referendum sui contratti. Marchionne ha dimostrato coi fatti che la sfida si può vincere. Un’impresa allora sull’orlo del fallimento è oggi una multinazionale solida e ben posizionata sulle due sponde dell’Atlantico, con una serie di marchi che hanno spostato il baricentro sul segmento premium. Il “piano Marchionne” non è stato completamente portato a termine. Mancano in particolare un’ulteriore aggregazione, per superare la quota minima di 6 milioni di veicoli che lui stesso aveva stabilito, e un rafforzamento della presenza nel mercato più dinamico del mondo, l’Asia. Ma sono dettagli rispetto al quadro d’insieme: la svolta di Fiat entrerà sicuramente a far parte dei casi di successo studiati nelle business school di tutto il mondo.

Il paese ha invece rigettato la “filosofia Marchionne”. Non credo che il suo obiettivo fosse di modernizzare l’Italia: a lui interessava rilanciare Fiat. Ma sicuramente sperava che il suo progetto diventasse contagioso. Da qui lo stupore, prima, e l’amarezza, poi, di fronte alle critiche contro la sua gestione. E il conseguente disimpegno dal dibattito italiano (e forse, lo spostamento del baricentro di Fca fuori dal paese). Ci ha messo un po’, ma quando l’ha capito, ne ha preso atto: in Italia è maggioritaria la quota di persone che pensa che la sfida della globalizzazione si possa vincere per decreto.

 

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Maturità 2018, siete delusi dal vostro voto?

Maturità 2018, siete delusi dal vostro voto? Istruzioni per preparare la rivincita

Se è’ andata male, ora potrà solo migliorare. Chi è uscito trionfalmente dalla maturità ha solo rinviato l’appuntamento con la sua quota di delusioni

Sì, poteva andare meglio. E’ uno sguardo imbambolato quello che scivola sul tabellone, con quei numeretti già letti una ventina di volte accanto a nomi cristallizzati da un lustro di appelli. Sicuramente il voto finale non è quello che ti aspettavi, neanche parente di quello sperato dai tuoi o generosamente immaginato dagli amici. Ma dai, la maturità è andata, non è il caso di farne un dramma. Sei stato promosso, in fondo. Certo per essere respinto avresti dovuto dare uno schiaffo al presidente di commissione e essere sicuro di prenderlo perché con una mezza cilecca qualche possibilità potevi ancora giocartela.

Pensa a quella candidata che alla domanda su chi era Gabriele D’Annunzio, ha risposto perentoria “un estetista”. E smettete di avere in testa quello scemo del terzo banco che ha preso 95. Ecco, siete immersi in una palude appiccicosa che si chiama delusione. Che rischia di rimanervi addosso scolorendo gli orizzonti della prima e forse unica estate della vita che può spingersi fino a ottobre inoltrato. E il peggio in tutta questa mestizia è che non prevede prediche o rimproveri, ma sorde litanie di rassegnazione con gestualità annessa. Se avete finito di piangervi addosso è il momento di ribellarvi. La delusione non è il contrario della speranza, ma la sua base di partenza più solida. E’ andata male, ora potrà solo migliorare.

Essere disillusi è una condizione ideale per affrontare le prossime sfide con i piedi ben saldi a terra. A questo dovete unire l’ingrediente segreto per trasformare una delusione nell’arma vincente della vostra rivincita. Si chiama consapevolezza. Gli unici colpevoli del fallimento siete voi, prima lo accettate meglio sarà. Incolpare la sorte, il tale prof, la sventura è una infinita e inutile perdita di tempo. Uno studio più costante, una vita appena appena più regolata, qualche concessione in più al riposo, accettare aiuti là dove da soli non si arriva facilmente: ecco, sono medicine capaci di effetti miracolosi. Non hanno bisogno di medici (o parenti) che le prescrivano. Tanto se non siete convinti voi non funzioneranno mai.

Non solo: la quota di amarezza e sconforto che la vita decide di regalarci è diversa per ognuno di noi, così come gioie e conquiste, ma alla lunga, sui grandi numeri quelle oscillazioni si avvicinano e il peso del bagaglio di scontentezza che ci tocca finisce per somigliarsi. Alla lunga. Se osservate la realtà per via breve, avete già dato. Chi è uscito trionfalmente dalla maturità ha solo rinviato l’appuntamento con la sua quota di delusioni. E avete finalmente capito cosa dire a quello scemo del terzo banco che ha preso 95. «Poveretto!».

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Le università nel Nord piacciono

Le università nel Nord piacciono di più. E il 70% dei neolaureati trova subito lavoro

 

Il rapporto  di Almalaurea: Il 97% di chi abita nelle regioni settentrionali resta a studiare vicino casa, il 25% di chi vive al Sud emigra negli atenei del Centro e Alta Italia. Per la prima volta la maggior parte dei laureati è in corso

di CORRADO ZUNINO

 

 

Il 97,4 per cento dei ragazzi diciannovenni cresciuti nel Nord dell’Italia, dopo il diploma sceglie un ateneo della sua area geografica. E di quel 2,6 per cento che si sposta, solo lo 0,5 – un diplomato ogni duecento – sceglie un’università meridionale. Al contrario, quasi un quarto dei diplomati del Sud (il 23,9 per cento) emigra nell’Italia centrale e settentrionale (metà e metà) per continuare gli studi nell’alta formazione.

Il rapporto 2018 del consorzio universitario Almalaurea, “Sul profilo occupazionale e sulla condizione dei laureati”, 630 mila soggetti presi in considerazione, dice che l’esodo per lo studio è forte e continuo nel nostro Paese, come già aveva sottolineato la Flc Cgil.
Che gli atenei del Nord abbiano la migliore fama è dimostrato da altri due dati. Gli emigranti del Centro Italia (il 10,9 per cento in tutto) in tre casi su quattro scelgono le accademie settentrionali. E così coloro che hanno studiato in scuole superiori straniere: in oltre il 90 per cento dei casi, rientrando in Italia, continuano gli studi al Centro-Nord.

Alla ricerca della loro triennale o magistrale gli studenti italiani si spostano. Sono la maggioranza: il 53,8 per cento del totale degli iscritti (gli anni presi in esame sono il 2012, il 2014 e il 2016). Un quarto dei diciannovenni cambia solo provincia (25,5 per cento), un ottavo (il 12,5 per cento) si sposta ma resta nell’area geografica di appartenenza (Nord, Centro o Sud) e un altro ottavo (il 12,5 per cento) fa un viaggio lungo, verso un’altra area geografica. Poi c’è un 3,1 per cento che si diploma all’estero e, abbiamo visto, sceglie un’università italiana.

I MIGRANTI CULTURALI
A spostarsi sono più frequentemente i ragazzi che hanno un background socio-culturale più elevato: il 36,1 per cento di chi ha compiuto migrazioni di lungo raggio ha almeno un genitore laureato contro il 28,3 per cento di chi è rimasto nella stessa ripartizione geografica. Tendenze simili si rilevano analizzando il percorso scolastico precedente: chi ha cambiato area per motivi di studio aveva ottenuto un voto medio di diploma di 83/100 contro 80,8/100 di chi è rimasto nell’ambito dell’adolescenza.

Secondo l’Organizzazione per lo sviluppo economico, l’Italia è all’ottavo posto tra i Paesi Ocse per attrattività del sistema universitario di secondo e terzo livello: su cento studenti mobili, 2,6 scelgono l’Italia. La quota di laureati di cittadinanza estera è del 3,5 per cento quando nel 2007 era del 2,6. Molto è dovuto ai figli di immigrati che sono andati a scuola in Italia. Non a caso il 12,9 per cento è cittadino albanese, l’11,2 per cento rumeno.

LAUREATI UN ANNO PRIMA
Dal 2007 ad oggi, cioè da quando è stata varata la Riforma Berlinguer dell’università italiana, la cosiddetta “3+2”, l’età media di laurea è scesa di un anno: da 27 a 26. Nel 2016 era pari a 26,1 anni. Per i laureati di primo livello (tre anni) il titolo arriva mediamente a 24,8 anni, per i magistrali a ciclo unico a 27 anni, per i laureati magistrali biennali a 27,4.

Anche la regolarità negli studi è migliorata in questo decennio. Se nel 2007 il 37,9 per cento dei laureati concludeva gli studi in corso, nel 2017 la percentuale ha raggiunto il 51,1, ed è la prima volta che più della metà degli universitari italiani è in corso rispetto al piano originario. Se dieci anni fa a terminare gli studi con quattro o più anni fuori corso erano 17,4 laureati su cento, oggi si sono quasi dimezzati: il 9,8 per cento. Il voto medio di laurea – 102,7 su 100 – è sostanzialmente invariato.

ESPERIENZE ALL’ESTERO PER UNO SU DIECI
L’11,1 per cento dei laureati del 2017 ha svolto esperienze di studio all’estero riconosciute dal corso di studi (era il 7,9 per cento nel 2007): l’8,8 per cento ha utilizzato programmi dell’Unione europea, Erasmus in primo luogo. L’8,8 per cento del complesso dei laureati ha sostenuto esami all’estero poi convalidati al rientro e il 4,7 per cento ha preparato fuori Italia una parte significativa della tesi.

Dal Rapporto emerge la figura di un universitario che vanta apprezzabili conoscenze linguistiche: la quota dei laureati 2017 con una conoscenza “almeno buona” dell’inglese scritto è pari al 76,1 per cento e raggiunge l’81,3 tra i laureati magistrali biennali. E il 57,9 per cento ha compiuto un’esperienza di tirocinio curriculare o stage riconosciuta dal corso di studi (era il 50,8 dieci anni fa).

In generale l’88,1 per cento si dichiara complessivamente soddisfatto dell’esperienza universitaria appena conclusa (nel 2007 era l’87,1).

OCCUPATI DOPO UN ANNO
A un anno dal titolo il tasso di occupazione è pari al 71,1 per cento tra i laureati di primo livello e al 73,9 per cento tra i magistrali biennali. Il confronto con le precedenti rilevazioni evidenzia un miglioramento del tasso di occupazione che, nell’ultimo quadriennio, è aumentato di 5,4 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 3,8 punti per i magistrali biennali. Questi tassi non sono ancora in grado di colmare la significativa contrazione del tasso di occupazione intervenuta tra il 2008 e il 2013 (-17,1 punti percentuali per i laureati triennali).

La retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è, in media, pari a 1.107 euro per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali biennali. Nell’ultimo quadriennio le retribuzioni reali percepite dai laureati a un anno risultano in crescita: +9,7 per cento per i laureati di primo livello.

A cinque anni dalla laurea lavora all’estero il 6,6 per cento dei magistrali biennali di cittadinanza italiana (quota stabile rispetto al 2016, +0,6 punti percentuali rispetto al 2013). Chi decide di spostarsi all’estero per motivi lavorativi risulta “mediamente più brillante” (voti negli esami e regolarità negli studi) rispetto a chi decide di rimanere in Italia a lavorare. A cinque anni dal conseguimento del titolo magistrale, l’83,3 per cento degli occupati all’estero lavora in Europa.

 

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Bullismo a scuola

Bullismo a scuola

 

Il caso in una scuola romana: genitori e docenti non hanno fatto nulla per mettere fine alle vessazioni subite da un alunno. Ma il luoro ruolo educativo è un dovere “naturale” prima ancora che giuridico

di VALENTINA ERAMO *

Bullismo a scuola, pagano genitori e insegnanti. Ecco perché il loro ruolo è fondamentale

 

In una scuola italiana è accaduto l’inimmaginabile: i genitori e gli insegnanti, e cioè coloro che dovrebbero educare e istruire, rispettivamente, i figli e gli allievi offrendo loro l’esempio di comportamenti retti e irreprensibili, sono stati condannati, in solido col Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, a risarcire il danno fisico e psichico procurato da un alunno in danno di un altro alunno. Il primo, infatti, ha perseguitato il secondo – per mesi e mesi e, soprattutto, nella completa ignavia dantesca degli adulti – apostrofandolo con offese mortificanti sia in classe sia fuori dalla classe: un giorno ha deciso di passare dalle parole all’azione e, come premesso, nell’indifferenza generale del corpo docente, ma anche della famiglia d’origine, quindi del tutto indisturbato, ha procurato al suo compagno di banco “la rottura del setto nasale e contusioni della ragione orbitale”.

La responsabilità degli insegnanti verso gli alunni che subiscono bullismo a scuola è sancita dall’articolo 2048 del nostro codice civile che prescrive, espressamente, ai primi di vigilare sui secondi, sì da impedire, durante l’orario scolastico, la consumazione dei cosiddetti “fatti illeciti” perpetrati dagli allievi minorenni in danno di altri studenti (o terze persone in genere). Questa norma, in tutta onestà, ha il solo pregio di essere ovvia: non codifica principi di diritto strabilianti, ma immanenti, connaturati e impliciti al ruolo dell’insegnante che non può far finta di niente se qualcuno dei suoi allievi proferisce inurbanità in classe o, peggio, aggredisce fisicamente il compagno costringendolo alle cure del Pronto Soccorso.

Eppure, quello che può sembrare scontato, scontato non è: la sentenza n. 6919, pubblicata lo scorso 4 aprile 2018 dal Tribunale di Roma, descrive la trama di un film noir che avrebbe potuto trovare ambientazione in un contesto spettrale quale, per esempio, il sotterraneo di un parcheggio dove, a tarda notte, la vittima designata non ha (per copione) via di scampo. Invece il giudice estensore della sentenza ora citata ha ambientato la trama dell’aggressione subita dall’alunno in una scuola pubblica di Viterbo dove i vocaboli sconci, le minacce di morte e la rottura del setto nasale sono avvenuti alla luce del sole e sotto gli occhi indifferenti degli adulti. Che non solo non hanno vigilato, ma non hanno alzato un dito per prevenire, impedire e mettere fine alle vessazioni inflitte per mesi dall’allievo minorenne in danno della vittima, sempre minorenne. Il peggiore di tutti si è rivelato l’insegnante di matematica: pur docente di una scienza esatta, non ha saputo far tesoro dei suoi insegnamenti e ha mandato in tilt il sistema scolastico, provocandone il cortocircuito dei valori più elementari di civiltà: è diventato l’emblema del lassismo e il simbolo dell’omertà. Durante la sua lezione, infatti, il giovane aggressore ha iniziato a consumare e perpetrare la condotta illecita che, poi, ha completato dapprima nel cortile della scuola e successivamente fuori dal suo cancello, sferrando il colpo che ha mandato il compagno di classe in ospedale.

Non si sono rivelati migliori degli insegnanti i genitori del minore rinviato a giudizio dal GUP presso il Tribunale per i minorenni di Roma per l’illecito ascrittogli: anche costoro, titolari della responsabilità genitoriale anche in forza dell’articolo 316 del codice civile (oltre che dell’articolo 2048 del codice civile), si sono marchiati col contrassegno, disonorevole, della noncuranza perché non hanno neppure accompagnato il figlio in udienza, pur destinatario di un capo di imputazione grave. Eppure il suo papà era un avvocato abituato a calcare le aule di giustizia: si è difeso col peggiore degli argomenti, e cioè eccependo che la separazione e il divorzio dalla moglie lo avevano costretto, suo malgrado, a vivere a centinaia e centinaia di chilometri di distanza dal figlio impedendogli, per fatti concludenti, di educarlo convenientemente.

Se, in questo caso, scuola e famiglia – entrambe colpevoli di condotte “omissive” – hanno fallito perché si sono disinteressate dei compiti di cura verso i minori (vittime del reato o autori del reato), abdicando ai doveri di istruzione ed educazione costituzionalmente sanciti e connaturati al ruolo di insegnante e genitore, in molti altri casi hanno centrato, invece, l’obiettivo e hanno saputo orientare gli agiti dei minori affidati alle rispettive e complementari responsabilità. A Milano, per esempio, non mancano gli esempi virtuosi di Presidi che hanno aderito alla campagna di sensibilizzazione promossa da associazioni senza fine di lucro, quali il Rotary Club Milano, indirizzate a informare docenti e genitori sui rischi legati a modelli comportamentali degli adulti inadeguati verso i minori. Uno di questi comportamenti inappropriati consiste nel “non” accorgersi che i ragazzi rischiano di ammalarsi di “cyber – dipendenza” (alle volte passibile di degenerare in “cyber – bullismo”) perché vivono, ormai, “connessi” 24 ore su 24 alla rete Internet, persino alterando i ritmi sonno – veglia, sì da non perdersi un solo minuto del loro mondo virtuale. Un altro di questi comportamenti inadatti consiste nel “non” preoccuparsi di controllare i contenuti della posta elettronica dei propri ragazzi o delle comunicazioni via Facebook o Social Network alle quali questi ultimi, ingenuamente, partecipano col rischio di cadere nella rete dei pedofili o di diventare vittime del gioco d’azzardo.

Resta vero che è increscioso demandare allo Stato, tramite il potere legislativo e quello giurisdizionale, la prescrizione e l’applicazione di doveri “innati” al ruolo di insegnante e genitore: vigilare sugli allievi a scuola e orientarli al rispetto del prossimo, così come educare i figli a casa e incoraggiarli a diventare persone perbene e osservanti dei valori della civiltà sono, prima di tutto, doveri “naturali”, cioè legati alla natura umana, e, solo in un secondo tempo, doveri “giuridici”, cioè discendenti dalla codificazione legislativa. La dicotomia tra diritto naturale e diritto codificato ha interessato illustri filosofi e giuristi già secoli addietro, mentre oggi sembra superata dalla convinzione che tutto ciò che non è scritto in una norma di legge è permesso. Ma non è così. Andando di questo passo lo Stato dovrà prescriverci anche le norme più elementari di condotta portandoci via, ma a buona ragione, l’autonomia di pensiero e di azione propria dei regimi democratici.

 

 

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