Autoregolazione, autoefficacia e co-regolazione nell’apprendimento

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Autoregolazione, autoefficacia e co-regolazione nell’apprendimento

Autoregolazione, autoefficacia e co-regolazione nell’apprendimento

Bellissimo articolo scritto da Vincenzo Amendolagine

Diverse ricerche hanno messo in evidenza che spesso il successo scolastico dipende dalla capacità di autoregolarsi. In altre parole, per giungere ai traguardi di apprendimento lo studente deve monitorare, controllare e regolare la sua applicazione nello studio. L’autoregolazione ha un suo iter procedurale ben preciso, ovvero lo studente deve darsi un obiettivo da raggiungere, utilizzare le strategie giuste, monitorare i propri progressi, sondare l’efficacia dell’intero processo.  Perché questa abilità possa estrinsecarsi è molto importante l’approccio psicopedagogico degli educatori (Agina, Kommers e Steehouder, 2011). In pratica, è necessario che i docenti promuovano nei loro discenti, fin dalle prime fasi della scolarizzazione, un processo di apprendimento attivo, che li accompagni nel corso di tutta l’intera carriera scolastica.

La validità dell’autoregolazione nell’apprendimento è un predittore del successo nei contesti scolastici (Zimmermann, 2008). Connessa all’autoregolazione è l’autoefficacia (Bandura, 1977) che il soggetto prova quando sa che, grazie alle sue abilità, è in grado di raggiungere un obiettivo che si prefissato.

Le variabili dell’insuccesso scolastico

L’incremento del ruolo di protagonista nel proprio apprendimento è agevolato da una serie di fattori, quali il possedere delle procedure metacognitive, la motivazione ad apprendere e il contesto di apprendimento (Dembo, Junge e Lynch, 2006). Quest’ultimo svolge un ruolo chiave, potendo attivare o ostacolare l’autoregolazione nell’apprendimento.

L’autoregolazione e l’autoefficacia sono due strumenti importanti che prevengono, laddove presenti, l’insuccesso scolastico. Blair e Raver (2015) vedono l’insuccesso scolastico  correlato ad alcuni elementi, quali le caratteristiche personali (inclusi l’autoregolazione e l’autoefficacia), il retroterra familiare e il contesto scolastico. Fra le caratteristiche personali sono da annoverare la capacità di organizzare le informazioni e di finalizzarle all’esecuzione del compito assegnato; l’abilità di focalizzare la propria attenzione; l’attitudine a riflettere sulle esperienze che si fanno; la competenza sociale, che induce ad avere delle interazioni interpersonali positive.

L’apprendimento cooperativo e la co-regolazione

Frequentemente nei contesti scolastici sono promossi i processi di cooperazione fra alunni nell’ambito dell’apprendimento (cooperative learning). In questo caso, si formano dei gruppi di apprendimento in cui l’autoregolazione nello studio da processo individuale diventa collettivo, coinvolgendo l’intero insieme di studenti che partecipano al gruppo (Hayes, Uzuner – Smith e Shea, 2015). In ragione di ciò, l’autoregolazione diviene co-regolazione.

La co-regolazione è efficace, ovvero promuove anche nel singolo la capacità di autoregolazione, nella misura in cui il gruppo è efficiente, ossia si crea un’interdipendenza positiva fra i membri che lo compongono. Nei gruppi di apprendimento si stabiliscono delle dinamiche differenti. Ci sono, infatti, degli individui che adottano un ruolo più attivo e altri un ruolo più periferico. Alcune volte, però, i membri più attivi non sono necessariamente i più qualificati.

Lavoro di gruppo, autoregolazione e autoefficacia

Uno studio (Fernandez-Rio, Cecchini, Mendez-Gimenez, Mendez-Alonso e Prieto, 2017), svolto dai ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Oviedo, in Spagna, ha voluto assodare come l’apprendimento cooperativo influisce sull’autoregolazione e sull’autoefficacia di ciascuno studente che fa parte di un gruppo di apprendimento. Lo studio ha reclutato 2513 studenti di scuola secondaria di secondo grado, con un’età compresa fra 12 e 17 anni, iscritti a 17 differenti scuole che appartengono al Network Nazionale delle Scuole Spagnole che utilizzano quotidianamente l’apprendimento cooperativo. Tutti i partecipanti alla ricerca avevano fatto l’esperienza dell’apprendimento cooperativo per almeno un anno scolastico. Per valutare gli effetti dell’apprendimento cooperativo sugli studenti sono stati somministrati alcuni questionari, quali The Cooperative Learning Questionnarie (Fernandez-Rio, Cecchini, Mendez-Gimenez, Mendez-Alonso e Prieto, 2017), che indaga l’efficacia dell’apprendimento cooperativo; The Strategies to Control the Study Questionnaire (Hernandez e Garcia, 1995), che valuta l’autoregolazione nell’apprendimento; The Global Academic Self – Efficacy Questionnarie (Torres, 2006), che indaga l’autoefficacia percepita.

Dai risultati della ricerca si evince che l’apprendimento cooperativo influenza positivamente l’autoregolazione e l’autoefficacia nell’apprendimento nel 35% circa dei soggetti esaminati (888 ragazzi).

 

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Il contributo della deontologia pedagogica

Il contributo della deontologia pedagogica alla sfida dell’inclusione scolastica

Cosa rende inclusivo un docente specializzato o curricolare? Cosa fare concretamente nell’operatività del quotidiano per testimoniare l’impegno per la crescita degli alunni? L’articolo propone una visione deontologica che definisce, nella prima parte, i principi fondamentali della professione educativa secondo l’approccio del problematicismo pedagogico, e ne propone successivamente una traduzione operativa nella pratica scolastica. L’inclusione è qui declinata come centralità del diritto all’educazione per tutti, non solo per gli alunni con disabilità ma per tutti coloro che, più o meno consapevolmente, sono portatori di bisogni educativi speciali.

 

Introduzione

La traduzione pratica dei principi dell’inclusione scolastica richiede una riformulazione della deontologia di base comune a tutti i docenti, a prescindere dal ruolo e dalla specializzazione. Solo attraverso un ripensamento generale della figura docente (in termini di finalità, competenze, metodologie), sarà infatti possibile tessere uno sfondo significante comune su cui è possibile attuare i principi di una autentica inclusione scolastica, nella direzione della costruzione di contesti sempre più competenti.

L’articolo si propone di analizzare i rapporti che intercorrono tra la riflessione deontologica, elaborata nell’ambito del problematicismo pedagogico di Bertin e dei suoi allievi, e i principi dell’inclusione scolastica, frutto, in Italia, di un lungo cammino di sperimentazione ad oggi tutt’altro che concluso.

La prima parte sarà dedicata ad una rivisitazione degli elementi essenziali della deontologia pedagogica, per mostrare come in essi siano già presenti, sullo sfondo, le linee operative per una inclusione scolastica di qualità. La seconda parte sarà invece dedicata all’analisi di alcune fondamentali competenze chiave, patrimonio comune tanto dei docenti curricolari quanto di quelli specializzati, richieste al docente che opera, nel segno della deontologia, in realtà sempre più complesse, eterogenee, plurali.

I principi della deontologia pedagogica nella prospettiva del problematicismo pedagogico

La deontologia pedagogica non ha soluzioni. Nulla è più lontano dall’approccio filosofico del problematicismo bertiniano di voler fornire non solo la “ricetta” per risolvere una situazione (oggi sempre più) complessa, ma anche la possibilità di un’interpretazione univoca di essa. Così deve essere interpretata anche la prospettiva deontologica che da questo filone prende le mosse: un impegno riflessivo costante che il docente deve condurre sul proprio lavoro e sulle motivazioni che lo sorreggono, diventando sempre di più un “professionista riflessivo”. Una riflessione che attinge dalla pratica e che in essa ritorna per arricchirla e renderla viva, consapevole di sé. Interpretata in questo modo, la deontologia, afferma Bertin, assume i connotati di un pensiero “inattuale”: essa non corrisponde infatti ai canoni del “pensiero sbrigativo” imposti dal paradigma attuale, non soddisfa le esigenze della semplificazione, non offre garanzie di successo: anche per questo, sosteneva Bertin, essa va perseguita, come impegno nei confronti di tutto ciò che è attuale al fine di integrarlo e arricchirlo.

La domanda cui la deontologia risponde non è dunque semplicemente “Cosa fare?” (la ricetta) ma si connota come domanda di senso, che diventa definizione di un orizzonte regolativo formale entro cui iscrivere le diverse prassi educative quotidiane: “A che cosa (fondamentalmente e dal punto di vista etico) deve essere tenuto chi educa?”. Nel rispondere a questa domanda facciamo esplicito riferimento alla proposta Contini che, facendo propria l’impostazione del problematicismo, ha sistematizzato in tre principi fondamentali la deontologia pedagogica delle professioni educative e, tra queste, dell’insegnante.

 

 

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Soft skills

Soft skills, cosa sono e come inserirle nella tua programmazione didattica……

Precisione, resistenza allo stress, problem solving. Sono solo alcune delle famose soft skills tanto ricercate oggi in ambito lavorativo. Si tratta di competenze trasversali che è necessario avere per affrontare con successo il mondo del lavoro e che, proprio per questo motivo, fanno tanto parlare gli insegnanti impegnati a preparare gli studenti al loro primo e vero sguardo sul lavoro.

Le soft skills di efficacia personale sviluppano doti come la creatività e l’equilibrio, fattori fondamentali in ambito lavorativo e necessarie per la risoluzione di problemi anche in caso di mansioni statiche.

Le competenze in ambito relazionale accrescono la capacità di lavorare in gruppo e di cooperare per il raggiungimento degli obiettivi. Tra queste, l’etica e la tolleranza permettono di gestire lo stress causato da relazioni disfunzionali e di adottare comportamenti adeguati a norme e valori condivisi.
Un altro aspetto determinante è la capacità di prendere decisioni e di negoziare, che migliora grazie allo sviluppo di flessibilità, ascolto empatico e distacco razionale.

Le competenze orientate alla realizzazione di sé, invece, riguardano soprattutto la capacità di valutazione, da cui deriva la selezione, la corretta gestione e la valorizzazione delle informazioni. Secondo AlmaLaurea le soft skills sono 14, nello specifico:

1. Autonomia

Capacità di svolgere i compiti assegnati senza il bisogno di una costante supervisione facendo ricorso alle proprie risorse.

2. Fiducia in sé stessi

È la consapevolezza del proprio valore, delle proprie capacità e delle proprie idee al di là delle opinioni degli altri.

3. Flessibilità/Adattabilità

Sapersi adattare a contesti lavorativi mutevoli, essere aperti alle novità e disponibili a collaborare con persone con punti di vista anche diversi dal proprio.

4. Resistenza allo stress

Capacità di reagire positivamente alla pressione lavorativa mantenendo il controllo, rimanendo focalizzati sulle priorità e di non trasferire su altri le proprie eventuali tensioni.

5. Capacità di pianificare ed organizzare

Capacità di realizzare idee, identificando obiettivi e priorità e, tenendo conto del tempo a disposizione, pianificarne il processo, organizzandone le risorse.

6. Precisione/Attenzione ai dettagli

È l’attitudine ad essere accurati, diligenti ed attenti a ciò che si fa, curandone i particolari ed i dettagli verso il risultato finale.

7.

È la capacità di riconoscere le proprie lacune ed aree di miglioramento, attivandosi per acquisire e migliorare sempre più le proprie conoscenze e competenze.

8. Conseguire obiettivi

È l’impegno, la capacità, la determinazione che si mette nel conseguire gli obiettivi assegnati e, se possibile, superarli.

9. Gestire le informazioni

Abilità nell’acquisire, organizzare e riformulare efficacemente dati e conoscenze provenienti da fonti diverse, verso un obiettivo definito.

10. Essere intraprendente/Spirito d’iniziativa

Capacità di sviluppare idee e saperle organizzare in progetti per i quali si persegue la realizzazione, correndo anche rischi per riuscirci.

11. Capacità comunicativa

Capacità di trasmettere e condividere in modo chiaro e sintetico idee ed informazioni con tutti i propri interlocutori, di ascoltarli e di confrontarsi con loro efficacemente.

12. Problem Solving

È un approccio al lavoro che, identificandone le priorità e le criticità, permette di individuare le possibili migliori soluzioni ai problemi.

13. Team work

Disponibilità a lavorare e collaborare con gli altri, avendo il desiderio di costruire relazioni positive tese al raggiungimento del compito assegnato.

14. Leadership

L’innata capacità di condurre, motivare e trascinare gli altri verso mete e obiettivi ambiziosi, creando consenso e fiducia.

Diciamolo però francamente: la nostra scuola, con programmi didattici molto ricchi, verifiche continue e interrogazioni frequenti, presenta una una struttura piuttosto rigida e non sviluppa particolarmente le competenze trasversali nei ragazzi, che invece sono fondamentali per affrontare con successo il mondo del lavoro e non solo.

Ecco che in questo senso viene in aiuto TuttoAlternanza.it, il portale nato dalla partnership tra Tuttoscuola e Civicamente e che ha l’obiettivo di accompagnare gli studenti verso il successo formativo, attraverso approfondimenti su tematiche di grande attualità. Cosa sono le soft skills? Come promuoverle nei contesti scolastici e di vita quotidiana? Perché sono tanto importanti nella realtà lavorativa contemporanea? TuttoAlternanza.it permette di rispondere a queste domande grazie a docenti e ricercatori dell’università telematica IUL (Italian University Line) promossa da Indire e Università degli studi di Firenze.

Come inserire le soft skills nella programmazione didattica?

Sappiamo bene che a scuola il tempo non è mai abbastanza, ma la soluzione è semplice: promuovere le soft skills all’interno del monte orario dell’Alternanza Scuola Lavoro. Per farlo con facilità, TuttoAlternanza.it propone fra le sue soluzioni PRONTI AL LAVORO!, ambienti digitali di apprendimento grazie ai quali gli studenti non rischieranno più di arrivare presso la struttura ospitante impreparati, ma formati a un corretto inserimento sul lavoro.

Uno dei percorsi di PRONTI AL LAVORO! riguarda proprio le soft skills. Il corso delinea una panoramica di queste competenze, fornendo alcuni strumenti per identificarle e migliorarle. Le lezioni sono curate da IUL che verifica e valuta il lavoro dei ragazzi. Di seguito l’offerta formativa proposta:

Unità didattica 1: Skills di efficacia personale
Video lezione
– Materiali di supporto

Unità didattica 2: Skills relazionali e di servizio
– Video lezione
– Materiali di supporto

Unità didattica 3: Skills relative a impatto e influenza
– Video lezione
– Materiali di supporto

Unità didattica 4: Skills orientate alla realizzazione
– Video lezione
– Materiali di supporto

Unità didattica 5: Skills cognitive
– Video lezione
– Materiali di supporto

Attività e test finale.

Quali sono i carichi di lavoro per il docente?

Leggerissimi: può avvalersi pienamente della piattaforma nella quale sono già infierite le lezioni e le attività proposte agli studenti. Con un lavoro minimo del docente, agli alunni verrà assicurato un percorso di qualità e certificato dall’Università

Quali soft skills vengono approfondite nel percorso di PRONTI AL LAVORO! ?

Come abbiamo visto precedentemente, in ambito internazionale sono moltissime le soft skills individuate da docenti ed esperti in materia. La lista, in continua evoluzione, presenta competenze trasversali ritenute indispensabili per entrare nel mondo del lavoro. La proposta di TuttoAlternanza.it presenta e approfondisce le seguenti soft skills:

  • Skills di efficacia personale – relative alla capacità degli alunni di autoefficacia ed auto efficienza.
  • Skills relazionali e di servizio– relative alla capacità degli alunni di entrare in empatia reciproca e sviluppare relazioni significative
  • Skills relative a impatto e influenza- che rimandano alla dimensione organizzativa e lo sviluppo di leadership
  • Skills orientate alla realizzazione– relative alla capacità degli alunni di iniziare e portare a termine un lavoro, anche complesso
  • Skills cognitive– relative allo sviluppo di capacità cognitive complesse da parte degli alunni

Ognuna delle competenze è presentata attraverso delle video lezioni, dei materiali di apprendimento e il modulo presente delle attività conclusive per promuovere maggiormente il protagonismo degli alunni.

 

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Stare bene a scuola si può: vademecum per un buon clima in classe

Stare bene a scuola si può: vademecum per un buon clima in classe

 

Stare bene a scuola si può.Il clima della classe è il frutto di un infinito intreccio di condizioni che possono essere create a partire dalla consapevolezza del docente della propria funzione di guida. In questo articolo si presentano una serie di indicazioni distinte nei diversi momenti di rapporto con la classe, che ogni docente può facilmente applicare durante la sua attività. Nella seconda parte, l’Autrice si sofferma a presentare una serie di attività educative che possono essere messe in atto per favorire un clima di classe positivo.

 

Introduzione

Il compito dell’insegnante è quello di essere formatore nell’accezione più ampia del termine. Il suo modo di essere e di stare nella classe può influire notevolmente sui sentimenti del singolo alunno e sulle dinamiche interpersonali nel gruppo.

Se il docente accede ad una capacità riflessiva (Bruner, 1988; Schön, 1993; Mezirow, 2003;) rispetto a sé e alla relazione/comunicazione in classe, può offrire uno specchio con cui i ragazzi si potranno sintonizzare (Franca, 2014; Rizzolatti e Senigallia, 2006).

Qui di seguito sono proposte delle semplici procedure che il docente può attivare per essere maggiormente consapevole del proprio compito di formatore a tutto tondo.

Prima di entrare in classe

Prima di entrare in classe il docente può soffermarsi, auto osservarsi e ricentrarsi rispetto a:

– Respirazione: cercare di rallentarla e di portarla a livello addominale. Ricordarsi di respirare sempre col naso in modo che ci sia meno iperventilazione e quindi sia facilitata la concentrazione e la calma (Middendorf, 2005).

– Propriocezione: fare un breve check sul proprio orientamento corporeo (Kabat-Zinn, 1990), per riconnettersi al proprio sé corporeo.

– Identità: sentire il proprio nome cercando di essere concentrati sul momento presente (Tolle, 2004; 2008), e sul gruppo classe nel quale si sta per entrare. Capita spesso che ci portiamo dentro l’aula i sentimenti e le emozioni vissute nelle ore precedenti in altre classi; è importante cercare di lasciare fuori dalla porta tutto ciò che non riguarda la storia della classe in cui stiamo entrando in modo da essere più ricettivi a ciò che si muove nel gruppo.

In classe

Esplicitare gli obiettivi

E’ buona norma far presente ad ogni lezione cosa si andrà a fare (attività, contenuti, metodologie, tempi). Su proposta dei ragazzi si potranno anche inserire variazioni nella scansione degli obiettivi in modo da  stabilire un’alleanza educativa (Franca, op. cit.) grazie alla quale ognuno si sentirà partecipe e ascoltato rispetto alle proprie esigenze. La definizione degli obiettivi insieme alla classe è una procedura che sarebbe importante svolgere sempre: all’inizio dell’anno per la scelta condivisa dei progetti, delle attività extra curricolari, della scansione degli argomenti di lezione, ma anche durante tutto l’anno ogni volta che ce ne sia la necessità o se ne presenti l’occasione (Jasmine, 2002). Se la classe si abitua a questa modalità il clima cambia radicalmente. Ovviamente per questo il docente dovrà spendere un po’ del suo tempo, ma i risultati saranno sorprendenti. All’insegnante, nel rispetto della sua funzione educativa, rimarrà sempre il compito e la responsabilità di guida e regia della situazione.

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Bellissimo articolo pubblicato da Educare.it e scritto Giulia Lucchesi

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Italia i docenti meno pagati

Italia i docenti meno pagati

Scuola, in Italia i docenti meno pagati. “Per un maestro italiano servono 455 euro in più

Dossier della Flc Cgil: “Per raggiungere i livelli europei necessario un aumento di 363 euro per un professore delle medie e 439 euro per le superiori”. Piano in 14 punti per colmare le distanze. La Camusso: “Apriamo il dibattito in tutto il Paese”

di CORRADO ZUNINO

Per guadagnare quanto un collega d’Europa un insegnante di infanzia e delle elementari dovrebbe avere – domani – un aumento in busta paga di 455 euro il mese. Un professore delle medie dovrebbe veder crescere lo stipendio di 363 euro, il collega delle superiori di 439 euro. Servirebbero, solo per questo, 6,8 miliardi. La Cgil, ramo Federazione dei lavoratori della Conoscenza, a convegno all’Auditorium di via Rieti ha illustrato la sua idea di scuola, “La scuola che verrà” appunto: perno del Paese e sua proiezione sul futuro. Lo ha fatto partendo dallo status quo. Della docenza, in particolare.

Seguendo il Conto annuale 2016 redatto dalla Pubblica amministrazione, si vede come la scuola è passata da un milione e 128 mila occupati nel 2008 (docenti, dirigenti scolastici, personale amministrativo) a un milione e 13 mila nel 2012 (115 mila persone espulse) per risalire a un milione e 116 mila nella stagione 2016 recuperando nelle ultime quattro stagioni quasi tutte le uscite delle precedenti quattro (il saldo negativo è di 12 mila unità). A otto anni di distanza la “Buona scuola” ha quasi fermato l’emorragia aperta dai tagli della Legge Gelmini: le forti assunzioni di docenti, però, non sono state seguite da un piano di stabilizzazione degli amministrativi. Le segreterie, oggi, sono l’area di crisi degli istituti scolastici italiani. A otto anni di distanza il taglio sui numeri del personale è del 10,6 per cento. Su un piano finanziario si è passati da un costo di 46,5 miliardi l’anno nel 2008 a 41,6 nel 2016: cinque miliardi di euro in meno per la scuola che rappresentano un saldo negativo del 10,7 per cento. In linea con la diminuzione degli occupati.

Il dato più importante, che discende dai primi due, lo abbiamo visto: il calo degli stipendi dei docenti italiani. E l’impietoso paragone con il resto dell’Europa avanzata. Solo nel 2009, penultimo contratto appena firmato, la retribuzione media del comparto era pari a 30.570 euro lordi. Nei sette anni successivi è scesa (con due piccoli recuperi nel 2011 e nel 2015) fino a toccare il pavimento nel 2016, ultimo anno rilevato: 28.403 euro lordi. Una perdita di 2.167 euro, il 7,1 per cento. Quest’anno, febbraio 2018, è arrivato il rinnovo del contratto della scuola e ha consentito una leggera crescita delle buste paga: 96 euro l’aumento medio per un docente, 84,5 euro per un amministrativo. Sono però le comparazioni successive, queste tratte da “Education at glance” dell’Ocse, a lasciare addosso alla scuola italiana l’idea del disinteresse collettivo. Nei tre blocchi di carriera di un professore di scuola secondaria di primo grado (stipendio iniziale, dopo 15 anni di attività, al massimo dell’anzianità) l’Italia è sotto la media Ocse (i Paesi industrializzati) e sotto la media Ue a 22: nel salario d’ingresso siamo diciannovesimi dietro l’Irlanda (prima nazione è, nettamente, il Lussemburgo, quindi Svizzera e Germania, quinta la Spagna). Nella progressione della carriera ci superano altri dieci Paesi (Giappone e Corea, ma anche Costa Rica e Colombia). La situazione statistica andrà aggiornata comprendendo nell’analisi sia il rinnovo del contratto 2018 che i tentativi di premio al merito inseriti dalla Legge 107 da luglio 2015. In generale, in molti Paesi le carriere sono decisamente più dinamiche, gli incrementi più consistenti.

Il successivo rapporto Ocse, illustrato dalla Flc Cgil, dice ancora che tra il 2010 e il 2015 in Italia – lo abbiamo visto – gli stipendi di un docente (scuola secondaria di primo grado con 15 anni di servizio) sono diminuiti e dice poi che in Francia, Giappone e Belgio hanno conosciuto una perdita meno consistente, mentre in Gran Bretagna, Scozia, Austria, nella Finlandia presa sempre ad esempio scolastico, ovviamente in Grecia sono decresciuti maggiormente. Ci sono nazioni che hanno continuato a investire, anche durante la crisi economica, sulla loro classe docente: in Ungheria (straordinariamente), quindi in Israele, Turchia, Portogallo, Germania, in Corea, Danimarca, Norvegia e Spagna.

In Italia un docente di scuola primaria con 15 anni di servizio guadagna un terzo esatto in meno di un laureato in altro settore. Un professore delle medie inferiori guadagna il 72 per cento, uno delle superiori il 76 per cento. In Germania il rapporto è uno a uno, in Spagna il livello medio delle retribuzioni scolastiche è lievemente superiore alla media degli altri laureati. Per arrivare agli stipendi Ue (a 22 Paesi) un docente d’infanzia ed elementari di una scuola italiana dovrebbe conoscere un aumento di 455 euro (il 20,5 per cento in più), un professore di medie dovrebbe veder crescere la busta paga di 363 euro (più 14,9 per cento) e uno delle superiori di 439 euro (più 17,6 per cento). Servirebbero, solo per questo, 6,8 miliardi (la Buona scuola, tra il 2015 e il 2017, ne ha investiti quattro).

D’altro canto – è questa è l’aliquota più preoccupante e segnale di miopia politica – la percentuale di spesa per la scuola rispetto all’intera amministrazione pubblica in otto anni (2005-2013) è scesa dall’8,1 per cento al 7,3: quattro punti percentuali sotto la media Ocse, due punti e mezzo sotto la media Ue. La spesa per studente in Italia (dalla scuola primaria alla secondaria) è pari a 8.926 dollari quando la media europea è di 795 dollari superiore.

La Cgil propone uno schema di finanziamento progressivo per i prossimi sei anni (2019-2024) costruito su quattordici punti: prevede, solo per queste voci, un impiego che parte da 3,5 miliardi per arrivare a 20,6 miliardi nel 2024. Tra le voci, va ricordato, ci sono: l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, la generalizzazione della scuola dell’infanzia, il ripristino del tempo pieno (e dei moduli) nella scuola primaria, il ritorno del tempo prolungato nella secondaria di primo grado, laboratori nelle superiori e “revisione radicale” dell’attuale modello di Alternanza scuola lavoro, quindi riduzione degli alunni per classe e un investimento massiccio sull’istruzione per gli adulti.

Susanna Camusso, segretaria nazionale Cgil, dice: “Discutere della scuola che verrà significa discutere del futuro che immaginiamo. La nostra sfida è alta. Apriamo nel Paese un dibattito sull’istruzione”. Il segretario della Federazione lavoratori della conoscenza, Francesco Sinopoli, aggiunge: “Lo studio, la scuola e l’università sono parte di un riscatto sociale, strumenti indispensabili per la comprensione del mondo. Ma la scuola da sola non può colmare il più grande divario territoriale d’Europa e non può assolvere alla sua missione senza un grande progetto nazionale mirato a superare i differenziali degli stessi sistemi territoriali.
Si deve rivedere l’autonomia e investire davvero. Sulla scuola apriamo un’assemblea costituente”.

 

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Diploma in quattro anni

Diploma in quattro anni

La stampa propone un articoli sul diploma in 4 anni di Elisabetta Pagani

“Noi, diplomati in quattro anni con il cuore in Europa”

Le esperienze dei primi maturandi italiani del liceo breve alla vigilia della sperimentazione per duecento istituti.

«Sapevo che avrei rinunciato a parte del mio tempo libero ma a volte è dura vedere che i miei amici escono mentre io sono a casa a studiare. A scuola sto incontrando delle difficoltà, è una continua scalata. Però sono sicura che quando arriverò in cima sarò fierissima di me». A scrivere è una ragazza che oggi ha 16 anni e frequenta la terza scientifico del liceo Gallio di Como, dove si prepara per la maturità del 2019 con un anno di anticipo sui suoi coetanei.  L’istituto paritario fa parte del gruppo di 12 «pionieri», privati e pubblici, che ha avviato la sperimentazione del diploma in 4 anni prima del bando del ministero dell’Istruzione, che a settembre consentirà a 192 licei e tecnici di formare classi per il quadriennale. Il gruppo dei 12 ha però perso un pezzo prima di partire, il liceo statale Garibaldi di Napoli: «Non si è mai iscritto nessuno – spiega la vicepreside Rosaria Blasi – forse non era il contesto giusto per questa novità».

Pubblico e privato

Una novità che non ha convinto tanti, tra cui i sindacati. Ma come sta andando per i primi diplomati a 18 anni? «Noi siamo stati i pionieri insieme al San Carlo di Milano – spiega Donatella Preti, dirigente scolastica del liceo Guido Carli di Brescia, nato 5 anni fa per volontà dell’Associazione industriale locale – e a luglio 2017 abbiamo avuto i nostri primi diplomati. Difficile tirare le somme su una sola esperienza, ma i risultati sono stati positivi. Votazione media di 83/100, in linea con quella dei nostri pochi maturandi quinquennali e ben oltre quella nazionale». Tre le scelte principali di chi si è diplomato alla Guido Carli, paritaria con retta di 8000 euro che quest’anno porta alla maturità 34 diciottenni: «La Bocconi, il Politecnico di Milano o l’estero».

Il percorso di studi abbreviato – confermano docenti, genitori e studenti – è «duro, serve molto impegno e il tempo libero diminuisce». I ragazzi – specifica il ministero – devono dimostrare le stesse competenze dei colleghi del quinquennale. Per recuperare tempo, allora, si allungano l’anno scolastico e l’orario giornaliero. «Si inizia ai primi di settembre – continua Preti – e si chiude il 30 giugno: 38 settimane invece di 33». Come al liceo Gallio, dove la prima maturità breve – per 22 ragazzi entrati con un test – sarà nel 2019: «38 settimane – spiega il preside, padre Luigi Croserio – e 30 ore a settimana, mentre al biennio dello scientifico normale sono 27. Servono una buona preparazione dal primo ciclo di studi, propensione all’impegno e conoscenza dell’inglese, ma il nostro desiderio non è quello di fare una cosa per pochi».

Materie in inglese

In queste scuole sono molte le materie insegnate in inglese. «Più del 40% – spiega Barbara Fumagalli, rappresentante dei genitori di terza del liceo comasco – ed è giusto che sia così se vogliono confrontarsi con l’estero. Il programma è impegnativo ma il metodo di studio completamente diverso da quello tradizionale, che sta facendo l’altra mia figlia in quinta. Meno lezioni frontali, approfondimenti da fare a casa, interdisciplinarietà. Una preparazione che stimola il senso critico». Punti deboli? «Mette più ansia ai ragazzi».

A chiedere l’introduzione del quadriennale sono stati in molti casi i genitori, rappresentanti di un tessuto economico locale imprenditoriale o di professionisti con lo sguardo rivolto all’estero. «Il giudizio per noi è positivo – spiega Salvatore Giuliano, preside del liceo Majorana di Brindisi che Luigi Di Maio ha inserito nella lista dei suoi eventuali ministri (Istruzione) – ed è monitorato da un comitato tecnico-scientifico. I ragazzi nell’arco dei 4 anni fanno lo stesso monte ore del quinquennale, ma il segreto è il metodo di studio. Quello tradizionale non funziona, bisogna innovare. Noi da sempre usiamo la tecnologia, il cooperative learning, l’apprendimento intervallato. Con ottimi risultati – sottolinea -. E non è vero che è un percorso che esclude, anzi. Da noi ci sono diversi ragazzi con deficit specifici dell’apprendimento. Spero – conclude – che le quasi 200 scuole che si accingono a iniziare il quadriennale non lo facciano con il metodo tradizionale».

Dalle prime informazioni sulle iscrizioni non sembra però che la novità abbia riscosso grande successo. «È un percorso che deve ancora affermarsi – confermano i presidi – e forse spaventa la mole di impegno». «È il prezzo da pagare per risparmiare un anno – dice Lorenzo De Simone, maturando del Majorana – io sono in quarta e stiamo facendo il Fascismo come le quinte». Soddisfatto della scelta? «Devi abituarti a un ritmo e a livelli di stress più alti, serve una bella forza interiore. Ma sono riuscito a mantenere i miei interessi, la palestra e le recensioni di musica per una fanzine. Da grande vorrei fare l’insegnante o il ricercatore, magari all’estero. E sono contento di poterlo fare un anno prima, come tanti in Europa».

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Il film per far amare la matematica e la fisica

Articolo proposto dalla Rapubblica di  ILARIA VENTURI

Il trailer: “La direzione del tempo”, il film per far amare la matematica e la fisica a scuola

 

I ragazzi interpretano Newton e Einstein nel lungometraggio prodotto con Rai Cinema e presentato nella manifestazione che ci celebra oggi con gare a colpi di quiz tra scuole

La preside richiama il giovane professore: “I risultati sono disastrosi, cerchi di far scattare qualche scintilla”. E così l’insegnante si inventa un cortometraggio per far studiare (e amare) la matematica e la fisica in una classe di scuola superiore. Motore partito: “Einstein, prima. Ciak”. Si gira. E’ nato così il film “La direzione del tempo”, coprodotto con la Rai e presentato oggi al PiGreco Day, la manifestazione che in tutto il mondo celebra la costante matematica. Il lungometraggio, ambientato in un liceo scientifico, è basato sulle difficoltà di alcuni studenti che si trovano ad affrontare con forte disagio l’approccio alle materie scientifiche.

·LA TRAMA: GLI STUDENTI NEI PANNI DI EINSTEIN
La trama è coinvolgente: quando ormai ogni speranza di recuperarli sembra persa, il loro insegnante di fisica ha l’idea di allestire uno spettacolo teatrale. I ragazzi indossano i panni dei più grandi scienziati dell’antichità e imparano ad amare la materia e a trasporla nella propria vita reale così prendono vita Einstein, Newton, Bernouilli, Faraday, Clausius e le loro scoperte. “Se oggi abbiamo un aereo che vola nel cielo o andiamo sulla luna, se riusciamo a comunicare con i cellulari è soltanto grazie a questi giganti”, ricorda nel film il professore. “Per realizzare i vosti sogni ed essere liberi dovete percorrere strade difficili. Inventate una vostra equazione, fate una sintesi di quello che volete dalla vita”.

GLI ALUNNI PEGGIORANO IN MATEMATICA ALLE MEDIE
Secondo gli ultimi dati Timss (Trends in international Mathematics and Science study) 2015, l’indagine che analizza il rendimento degli studenti in matematica e scienze in oltre 60 Paesi, gli studenti italiani rimangono sopra la media alle elementari e di poco sotto alle medie. Al quarto anno della primaria gli alunni ottengono un punteggio di 507 in matematica e 516 in scienze (la media Timss è 500). Il Nord Est in matematica raggiunge un punteggio medio di 525, mentre il Sud-Isole arriva a 477, sotto la media. L’Italia è al trentesimo posto in matematica, davanti alla Francia (35esima) e dietro alla Germania (24esima). In terza media, invece, i nostri studenti ottengono un punteggio di 494 in matematica e di 499 in scienze.

· SPETTACOLI DI MATEMATICA
A lanciare l’iniziativa del lungometraggio che sarà distribuito nelle scuole (altri ne sono stati prodotti per elementari e medie) è “Spettacoli di matematica”, un’associazione di promozione sociale che da qualche anno divulga la matematica nelle scuole attraverso laboratori e spettacoli teatrali. “Di fronte ai dati Ocse-Pisa che da sempre raccontano una certa disaffezione dei nostri ragazzi per tabelline ed equazioni abbiamo voluto parlare di numeri attraverso il cinema. E ad ogni proiezione associamo attività ludico-scientifiche”, spiega Aldo Reggiani, ingegnere e presidente dell’associazione.

·GARA A COLPI DI QUIZ PER IL PI-GRECO DAY
Il 14 marzo è ormai una data simbolo per rendere omaggio al Pi Greco, il re dei numeri che indica il rapporto tra la circonferenza e il diametro del cerchio. Anche quest’anno centinaia di team delle scuole di tutta Italia, dalla primaria alle superiori, sono pronti a sfidarsi con formule e numeri. Giochi e gare a base di calcoli si svolgeranno oggi anche presso il ministero dell’Istruzione con la ministra Valeria Fedeli. Dodici le squadre in competizione che saranno presenti a Roma. Contemporaneamente partirà la sfida on line. I team dovranno battersi a colpi di quiz: vince chi riesce a risolvere il maggior numero di quesiti nell’arco della giornata.

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Tasse oltre la metà degli atenei fuorilegge

Università, la denuncia degli studenti: “Sulle tasse oltre la metà degli atenei fuorilegge”

 

Nuovo dossier dell’Unione degli universitari su chi supera il tetto fissato per legge dei contributi che si possono incassare

di SALVO INTRAVAIA

 

Oltre metà degli atenei italiani “fuorilegge” sulle tasse universitarie. La denuncia arriva dall’Unione degli universitari, il sindacato degli studenti che elaborando i dati messi a disposizione dal Miur (il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) ha pubblicato il dossier dall’inequivocabile titolo: “Sulle nostre spalle”. Dallo studio emerge che nel 2015 gli atenei hanno incassato 259 milioni non dovuti dagli studenti perché la tassazione supera il limite del 20 per cento rispetto al Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) erogato dallo Stato. Secondo questo parametro le università fuorilegge sarebbero 33 su 50, oltre metà appunto. Un conteggio che gli atenei contestano.

Perché nel 2012, quando a viale Trastevere sedeva Francesco Profumo, venne introdotta una norma che nel conteggio di quel 20 per cento scorporava le tasse degli studenti fuoricorso. Un provvedimento che, per diventare attuativo, aveva bisogno di un decreto ministeriale mai emanato che consentisse tale calcolo. A confermarlo il consiglio di Stato con una sentenza del 2014, che vedeva contrapposti gli studenti di Pavia e l’ateneo lombardo: senza decreto ministeriale niente scorporo, insomma. E atenei che sono soggetti alla spada di Damocle dei ricorsi e del rimborso di cifre non indifferenti: l’ateneo di Pavia venne condannato a risarcire 8 milioni. Il rischio di una serie di provvedimenti a catena è tutt’altro che remoto.

Perché, conti alla mano, dal 2008 (quando la Gelmini mise mani alla riforma universitaria) al 2015, l’Ffo è calato del 5 per cento, quasi 370 milioni e, contemporaneamente, le tasse sborsate dalle famiglie si sono incrementate del 17 per cento, quasi 236 milioni. Il Fondo statale rappresenta per gli atenei la principale fonte di finanziamento e con i tagli messi a segno dai governi Berlusconi prima e Monti dopo era naturale che le università si rivolgessero agli studenti. L’Ffo che nel 2010 ammontava a 7,7 miliardi di euro cinque anni dopo (nel 2015) si ridusse a poco più di 7 miliardi. Mentre le tasse universitari, tra le più alte d’Europa, sono sempre cresciute. E in totale rappresentano il 23 per cento del finanziamento statale, 1,7 miliardi.

Nel 2008, gli atenei che tartassavano gli studenti oltre i limiti previsti dalla legge erano 20 su 59. Nel 2015 sono saliti a 33 sempre su 59: uno su due. E sono soprattutto concentrati al Nord (12 su 18) dove nello stesso periodo la tassazione è cresciuta di ben 163 milioni. Un record. Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale dell’Udu, dichiara: “Dopo i tagli dell’accoppiata Tremonti-Gelmini, del 2008-2010, si registra quindi una crescita sensibile delle tasse universitarie. Eppure il ministero da anni, nonostante le nostre continue inchieste, sta in silenzio e non chiede agli atenei di rientrare nei limiti, comunque insufficienti, previsti dalla legge. Ma il problema è sistemico. È il sottofinanziamento dell’università che ha condotto gli atenei ad innalzare le tasse. Va implementata la no-tax area e si deve andare nella direzione di una graduale abolizione delle tasse universitarie, le terze più alte d’Europa”.

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Arriva la rivoluzione dei test Invalsi

Test Invalsi

Arriva la rivoluzione dei test Invalsi: più tempo e meno domande

 

Per la terza media si svolgeranno dal 4 al 21 aprile, e non più durante l’esame finale, con la modalità computer-based e non saranno più in contemporanea in tutte le scuole italiane

di SALVO INTRAVAIA

 

IL ministero dell’Istruzione, in una circolare per i test invalsi, ha spiegato tutte le novità introdotte dalla Buona scuola sul quizzone croce e delizia, da quando è stato introdotto, di mezzo milione di studenti. Il Miur ripercorre le modifiche che partiranno proprio quest’anno delineando le misure messe in campo per evitare di mettere in difficoltà i ragazzi alle prese con la novità.

Innanzitutto, “la partecipazione alle prove invalsi – ricordano dal ministero – è requisito di ammissione all’esame”. Senza avere partecipato, a prescindere dalla valutazione, non si potrà accedere agli esami. E, alle prove di Italiano e Matematica, si aggiunge quella di Inglese. Ovviamente, per coloro che fossero costretti ad assentarsi, sono previste una o più sessioni di recupero. Modalità differenziate (eventualmente anche in forma cartacea) per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento e per quelli affetti da disabilità.

Le prove non si svolgeranno, come avveniva fino allo scorso anno, nello stesso momento ma “secondo calendari specifici per ciascuna istituzione scolastica”. Per la terza media si svolgeranno dal 4 al 21 aprile i test invalsi. I tre quizzoni avranno inoltre il 10 per cento di domande in meno rispetto alle edizioni precedenti (in cui il numero di domande cambiava ogni anno) e verrà concesso più tempo: 15 minuti in più. In altre parole, per risolvere i diversi item gli studenti avranno a disposizione 90 e non più 75 minuti.

Due le motivazioni che hanno spinto l’istituto di via Ippolito Nievo ad “alleggerire” la prova dei test invalsi. Primo: fare “in modo che le alunne e gli alunni abbiano tutto il tempo per rispondere serenamente alle domande. Secondo: la modalità computer-based “consente di mantenere la stessa precisione nella definizione dei risultati con un numero minore di quesiti di un’equivalente prova cartacea”. Mentre i contenuti della prova d’Italiano e di Matematica saranno in perfetta continuità con quelli delle prove degli anni passati, mentre quelli della prova d’Inglese sono in linea con quanto previsto dal Quadro comune europeo di riferimento delle lingue, al livello A1.

Per sbarcare sul web le prove “sono state predisposte – spiegano da viale Trastevere – su una piattaforma online già utilizzata in diversi paesi europei per lo svolgimento di prove analoghe e in alcune importanti ricerche comparative internazionali”. Ma le scuole medie avranno le necessarie attrezzature – computer e collegamenti internet perfettamente funzionanti – per traghettare le prove Invalsi nel terzo millennio? Qualche settimana fa, alcuni presidi lanciarono l’allarme su un possibile caos, paventando il ritorno alle prove cartacee. Ma all’Invalsi sono categorici: “Si fa presente – spiegano – che ciò non sarà possibile dal momento che la modalità di somministrazione “computer based” delle prove è un requisito fissato esplicitamente dalla legge. Pertanto – continuano

dall’istituto nazionale di valutazione – l’Invalsi, pur dichiarandosi disponibile ad ogni tipo di flessibilità circa l’organizzazione pratica delle prove, non potrà attuare modalità di somministrazione diverse da quelle previste dalla legge”.

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Un diplomato su due ammette: “Ho sbagliato scuola”

Un diplomato su due ammette: “Ho sbagliato scuola”

 

Non calano i pentiti della scelta fatta a 14 anni dell’istituto o dell’indirizzo di studi. Indagine AlmaDiploma su 80mila ragazzi usciti dalle superiori nel 2016 e 2014

di ILARIA VENTURI

 

Sarà per una scelta prematura, da fare a 13-14 anni, o per l’orientamento che ancora non funziona come dovrebbe. Ma si conferma la fatica dei ragazzi nell’individuare la scuola superiore o l’indirizzo “giusto” per loro. Interpellati poco prima della Maturità quasi uno su due (45%) dichiara di aver sbagliato. Dopo un anno, gli stessi ragazzi si dicono pentiti della scelta nel 42% dei casi. E’ il nuovo Rapporto 2018 redatto da AlmaDiploma sulla condizione occupazionale e formativa dei diplomati a dirlo. L’indagine ha riguardato circa 80 mila diplomati del 2016 e del 2014 intervistati rispettivamente a uno e tre anni dal conseguimento del titolo. Ne esce la fotografia dei diplomati rispetto all’esperienza scolastica compiuta e al futuro che li aspetta tra università – scelta dal 70% – e lavoro.

“La transizione post diploma pone il ragazzo di fronte a problematiche complesse: la conoscenza di sé, il possesso delle informazioni indispensabili sull’università e sul mondo del lavoro – spiega Mauro Borsarini, presidente di AlmaDiploma – Proprio per questo diventa fondamentale mettere in atto delle politiche di orientamento che supportino i giovani sia nella scelta dell’università che nel loro ingresso nel mercato del lavoro”. L’indagine, continua, “permette alle scuole di acquisire elementi per poter valutare l’efficacia esterna del proprio curriculum di studi, delle proprie metodologie di insegnamento e della propria progettazione educativa e didattica”.

· LA SCUOLA? “SE POTESSI TORNARE INDIETRO CAMBIEREI”
“La famiglia e gli insegnanti della scuola secondaria di primo grado esercitano un ruolo di fondamentale importanza nella scelta del percorso da compiere”, si legge nel Rapporto. È probabilmente per tali ragioni, dunque, che alla vigilia della conclusione degli studi il 55% dei diplomati del 2016 dichiara che, potendo tornare indietro, sceglierebbe lo stesso corso nella stessa scuola, mentre il restante 45% compierebbe una scelta diversa: oltre un quarto cambierebbe sia scuola sia indirizzo, il 12% ripeterebbe il corso ma in un’altra scuola, l’8% sceglierebbe un diverso indirizzo nella stessa scuola. Intervistati a un anno dall’esame di Satto chi replicherebbe esattamente il percorso scolastico sale al 57%. Ma rimane il 27% che cambierebbe sia scuola che indirizzo. I meno convinti risultano quelli degli istituti professionali e il malcontento cresce a un anno dal diploma.

Un diplomato su due ammette: "Ho sbagliato scuola"

A sinistra i ragazzi intervistati prima del diploma, a destra ad un anno dal diploma (fonte AlmaDiploma)

· DOPO IL DIPLOMA IL 67% SI ISCRIVE ALL’UNIVERSITA’
I diplomati del 2016 iscritti all’università, dopo un anno, sono il 67%. La quota di diplomati dediti esclusivamente allo studio universitario è nettamente più elevata tra liceali (68%) rispetto ai diplomati del tecnico (37%) e del professionale (18%). Rimane assai elevata, ancora dopo tre anni dal diploma – racconta il rapporto – la quota di liceali che studia – esclusivamente – all’università: 62%, contro il 32% del tecnico e il 13% del professionale.? Erano già convinti tra i banchi della scuola secondaria di secondo grado di volerla fare? Sì. Alla vigilia dell’esame di Stato, infatti, l’86% di coloro che aveva dichiarato di volersi iscrivere all’università ha successivamente confermato le proprie intenzioni. All’opposto, l’8% ha cambiato idea.? Il contesto socio-economico e culturale familiare influenza nettamente la scelta. Fra i diplomati del 2016 appartenenti a contesti più favoriti è nettamente più frequente l’iscrizione all’università (79% contro 53% dei giovani provenienti da famiglie meno favorite). Anche il titolo di studio dei genitori ha un peso nelle scelte formative dei giovani: l’84% dei diplomati provenienti da famiglie in cui almeno un genitore è laureato ha deciso di iscriversi all’università. “La scelta delle famiglie di supportare la prosecuzione degli studi – dice il rapporto – è influenzata dalle difficoltà economiche e occupazionali vissute e, in molti casi, chi può fa proseguire gli studi rinviando l’ingresso nel mercato del lavoro”.

· I DIPLOMATI AL LAVORO: PRECARI E STIPENDI DA MILLE EURO
Ad un anno dal conseguimento del titolo, escludendo quanti sono impegnati in attività formative retribuite, risultano occupati 35 diplomati su cento: tra questi 16 hanno scelto di frequentare l’università lavorando. Come era naturale attendersi, questa percentuale raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei diplomati professionali (47%) e dei tecnici (42%) mentre tocca il minimo tra i liceali (27%). A tre anni dal titolo sono occupati 46 diplomati (di cui il 18% è impegnato sia nello studio che nel lavoro). Tra i diplomati del 2014, tale quota raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei diplomati professionali (69%) e tecnici (56%), mentre tocca il minimo tra i liceali (32%). La disoccupazione coinvolge 20 diplomati su cento ad un anno; una quota significativa che raggiunge il 23% dei diplomati professionali, i più pronti ad inserirsi nel mercato del lavoro. ?Il tasso di disoccupazione, a tre anni dal titolo, scende al 13%. I diplomati che lavorano a tempo pieno hanno per lo più contratti a termine e guadagnano in media, a un anno dal diploma, 1.043 euro mensili netti e a tre anni 1.169 euro.

· ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO COINVOLGE IL 61%
Il rapporto dedica uno specifico approfondimento all’alternanza scuola-lavoro. Dall’Indagine emerge che il 61% dei diplomati dichiara che il percorso didattico concluso prevedeva tali tipi di esperienze che – come ci si poteva attendere – risultano particolarmente diffuse negli istituti professionali (il 91% dei diplomati dichiara che il progetto era previsto) e nei tecnici (86%); riguardano solo in minima parte i licei (40%). L’alternanza scuola-lavoro “non sembra essere un’esperienza isolata, che termina con il diploma – spiega l’indagine – ma spesso si traduce in un rapporto di lavoro con l’azienda presso cui lo studente ha svolto i periodi lavorativi previsti dal progetto”.

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