Via all’anno scolastico con 75mila alunni in meno

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Via all’anno scolastico con 75mila alunni in meno

Via all’anno scolastico con 75mila alunni in meno. Piace il liceo classico, fuga dal latino allo scientifico

Record di bambini e ragazzi disabili e alunni stranieri che tornano a crescere: il report del ministero dell’Istruzione

di SALVO INTRAVAIA

 

Meno plessi scolastici e meno alunni seduti in classe. Record di bambini e ragazzi disabili e alunni stranieri che tornano a crescere. In ripresa il liceo classico ma è fuga dal latino allo scientifico. Notte fonda invece per gli istituti professionali che continuano a perdere adepti. Domani mattina alle 8 in punto, quasi un milione di alunni di Abruzzo, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte faranno il loro primo ingresso in aula. Dal 12 settembre al 20, con la Puglia che chiude la lista, 7milioni e 768mila alunni delle scuole statali avranno iniziato le lezioni per il 2018/21019. Il ministero dell’Istruzione ha pubblicato l’annuale report con tutti i numeri dell’anno in questione.

Per effetto delle razionalizzazioni regionali, calano di quasi 181 unità le sedi dove si svolgeranno le lezioni. E il calo della popolazione scolastica, già prevista dalle statistiche dell’Istat, comincia a prendere forma: meno 75mila alunni in un solo anno, quasi tutti concentrati nella scuola dell’infanzia e nella primaria, e 121mila in meno in cinque anni. Di contro, aumenteranno gli alunni stranieri che, dopo un arresto del trend positivo, torneranno a crescere a buon ritmo: la previsione del Miur è di 788mila alunni non italiani, più 4 per cento rispetto all’anno scorso. Con record alla scuola media, che incrementerà la presenza straniera tra i banchi dell’8 per cento.

Dopo le prime avvisaglie degli anni scorsi, i numeri confermano il ritorno dei ragazzini di scuola media al ginnasio. Il liceo classico registra 2.200 alunni in più di 12 mesi fa, per un totale di 150mila presenze nei cinque anni. Ma allo scientifico è fuga dal Latino. Chi può e chi non ce la fa a tenere il ritmo del percorso ordinamentale preferisce virare sulle opzioni (scienze applicate e liceo sportivo) che non contemplano lo studio della lingua di Cicerone. In cinque anni, l’indirizzo dello scientifico ordinario (col latino) ha perso 88mila iscritti mentre i due indirizzi senza latino, che molti considerano light, conteggiano 89mila iscritti in più. E continua la licealizzazione della scuola superiore, in cui 49 ragazzi su cento sono in forza ai licei.

Tengono, con il 31,5 per cento di presenze in classe, gli istituti tecnici e continuano a contare meno alunni gli istituti professionali che negli ultimi anni sono andati incontro a ben due riforme. I 513mila iscritti rappresentano meno del 20 per cento di tutti i ragazzi delle superiori. Un record negativo. Che si contrappone al nuovo primato (245mila) di alunni disabili, 11mila in più rispetto allo scorso anno. Un fenomeno che farà crescere di 3mila unità anche i docenti specializzati nell’insegnamento ai soggetti disabili: gli insegnanti di sostegno che tuttavia, percentualmente, dovranno seguire più alunni in contemporanea: 1,74 a testa.

 

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Maturità 2018, siete delusi dal vostro voto?

Maturità 2018, siete delusi dal vostro voto? Istruzioni per preparare la rivincita

Se è’ andata male, ora potrà solo migliorare. Chi è uscito trionfalmente dalla maturità ha solo rinviato l’appuntamento con la sua quota di delusioni

Sì, poteva andare meglio. E’ uno sguardo imbambolato quello che scivola sul tabellone, con quei numeretti già letti una ventina di volte accanto a nomi cristallizzati da un lustro di appelli. Sicuramente il voto finale non è quello che ti aspettavi, neanche parente di quello sperato dai tuoi o generosamente immaginato dagli amici. Ma dai, la maturità è andata, non è il caso di farne un dramma. Sei stato promosso, in fondo. Certo per essere respinto avresti dovuto dare uno schiaffo al presidente di commissione e essere sicuro di prenderlo perché con una mezza cilecca qualche possibilità potevi ancora giocartela.

Pensa a quella candidata che alla domanda su chi era Gabriele D’Annunzio, ha risposto perentoria “un estetista”. E smettete di avere in testa quello scemo del terzo banco che ha preso 95. Ecco, siete immersi in una palude appiccicosa che si chiama delusione. Che rischia di rimanervi addosso scolorendo gli orizzonti della prima e forse unica estate della vita che può spingersi fino a ottobre inoltrato. E il peggio in tutta questa mestizia è che non prevede prediche o rimproveri, ma sorde litanie di rassegnazione con gestualità annessa. Se avete finito di piangervi addosso è il momento di ribellarvi. La delusione non è il contrario della speranza, ma la sua base di partenza più solida. E’ andata male, ora potrà solo migliorare.

Essere disillusi è una condizione ideale per affrontare le prossime sfide con i piedi ben saldi a terra. A questo dovete unire l’ingrediente segreto per trasformare una delusione nell’arma vincente della vostra rivincita. Si chiama consapevolezza. Gli unici colpevoli del fallimento siete voi, prima lo accettate meglio sarà. Incolpare la sorte, il tale prof, la sventura è una infinita e inutile perdita di tempo. Uno studio più costante, una vita appena appena più regolata, qualche concessione in più al riposo, accettare aiuti là dove da soli non si arriva facilmente: ecco, sono medicine capaci di effetti miracolosi. Non hanno bisogno di medici (o parenti) che le prescrivano. Tanto se non siete convinti voi non funzioneranno mai.

Non solo: la quota di amarezza e sconforto che la vita decide di regalarci è diversa per ognuno di noi, così come gioie e conquiste, ma alla lunga, sui grandi numeri quelle oscillazioni si avvicinano e il peso del bagaglio di scontentezza che ci tocca finisce per somigliarsi. Alla lunga. Se osservate la realtà per via breve, avete già dato. Chi è uscito trionfalmente dalla maturità ha solo rinviato l’appuntamento con la sua quota di delusioni. E avete finalmente capito cosa dire a quello scemo del terzo banco che ha preso 95. «Poveretto!».

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Le università nel Nord piacciono

Le università nel Nord piacciono di più. E il 70% dei neolaureati trova subito lavoro

 

Il rapporto  di Almalaurea: Il 97% di chi abita nelle regioni settentrionali resta a studiare vicino casa, il 25% di chi vive al Sud emigra negli atenei del Centro e Alta Italia. Per la prima volta la maggior parte dei laureati è in corso

di CORRADO ZUNINO

 

 

Il 97,4 per cento dei ragazzi diciannovenni cresciuti nel Nord dell’Italia, dopo il diploma sceglie un ateneo della sua area geografica. E di quel 2,6 per cento che si sposta, solo lo 0,5 – un diplomato ogni duecento – sceglie un’università meridionale. Al contrario, quasi un quarto dei diplomati del Sud (il 23,9 per cento) emigra nell’Italia centrale e settentrionale (metà e metà) per continuare gli studi nell’alta formazione.

Il rapporto 2018 del consorzio universitario Almalaurea, “Sul profilo occupazionale e sulla condizione dei laureati”, 630 mila soggetti presi in considerazione, dice che l’esodo per lo studio è forte e continuo nel nostro Paese, come già aveva sottolineato la Flc Cgil.
Che gli atenei del Nord abbiano la migliore fama è dimostrato da altri due dati. Gli emigranti del Centro Italia (il 10,9 per cento in tutto) in tre casi su quattro scelgono le accademie settentrionali. E così coloro che hanno studiato in scuole superiori straniere: in oltre il 90 per cento dei casi, rientrando in Italia, continuano gli studi al Centro-Nord.

Alla ricerca della loro triennale o magistrale gli studenti italiani si spostano. Sono la maggioranza: il 53,8 per cento del totale degli iscritti (gli anni presi in esame sono il 2012, il 2014 e il 2016). Un quarto dei diciannovenni cambia solo provincia (25,5 per cento), un ottavo (il 12,5 per cento) si sposta ma resta nell’area geografica di appartenenza (Nord, Centro o Sud) e un altro ottavo (il 12,5 per cento) fa un viaggio lungo, verso un’altra area geografica. Poi c’è un 3,1 per cento che si diploma all’estero e, abbiamo visto, sceglie un’università italiana.

I MIGRANTI CULTURALI
A spostarsi sono più frequentemente i ragazzi che hanno un background socio-culturale più elevato: il 36,1 per cento di chi ha compiuto migrazioni di lungo raggio ha almeno un genitore laureato contro il 28,3 per cento di chi è rimasto nella stessa ripartizione geografica. Tendenze simili si rilevano analizzando il percorso scolastico precedente: chi ha cambiato area per motivi di studio aveva ottenuto un voto medio di diploma di 83/100 contro 80,8/100 di chi è rimasto nell’ambito dell’adolescenza.

Secondo l’Organizzazione per lo sviluppo economico, l’Italia è all’ottavo posto tra i Paesi Ocse per attrattività del sistema universitario di secondo e terzo livello: su cento studenti mobili, 2,6 scelgono l’Italia. La quota di laureati di cittadinanza estera è del 3,5 per cento quando nel 2007 era del 2,6. Molto è dovuto ai figli di immigrati che sono andati a scuola in Italia. Non a caso il 12,9 per cento è cittadino albanese, l’11,2 per cento rumeno.

LAUREATI UN ANNO PRIMA
Dal 2007 ad oggi, cioè da quando è stata varata la Riforma Berlinguer dell’università italiana, la cosiddetta “3+2”, l’età media di laurea è scesa di un anno: da 27 a 26. Nel 2016 era pari a 26,1 anni. Per i laureati di primo livello (tre anni) il titolo arriva mediamente a 24,8 anni, per i magistrali a ciclo unico a 27 anni, per i laureati magistrali biennali a 27,4.

Anche la regolarità negli studi è migliorata in questo decennio. Se nel 2007 il 37,9 per cento dei laureati concludeva gli studi in corso, nel 2017 la percentuale ha raggiunto il 51,1, ed è la prima volta che più della metà degli universitari italiani è in corso rispetto al piano originario. Se dieci anni fa a terminare gli studi con quattro o più anni fuori corso erano 17,4 laureati su cento, oggi si sono quasi dimezzati: il 9,8 per cento. Il voto medio di laurea – 102,7 su 100 – è sostanzialmente invariato.

ESPERIENZE ALL’ESTERO PER UNO SU DIECI
L’11,1 per cento dei laureati del 2017 ha svolto esperienze di studio all’estero riconosciute dal corso di studi (era il 7,9 per cento nel 2007): l’8,8 per cento ha utilizzato programmi dell’Unione europea, Erasmus in primo luogo. L’8,8 per cento del complesso dei laureati ha sostenuto esami all’estero poi convalidati al rientro e il 4,7 per cento ha preparato fuori Italia una parte significativa della tesi.

Dal Rapporto emerge la figura di un universitario che vanta apprezzabili conoscenze linguistiche: la quota dei laureati 2017 con una conoscenza “almeno buona” dell’inglese scritto è pari al 76,1 per cento e raggiunge l’81,3 tra i laureati magistrali biennali. E il 57,9 per cento ha compiuto un’esperienza di tirocinio curriculare o stage riconosciuta dal corso di studi (era il 50,8 dieci anni fa).

In generale l’88,1 per cento si dichiara complessivamente soddisfatto dell’esperienza universitaria appena conclusa (nel 2007 era l’87,1).

OCCUPATI DOPO UN ANNO
A un anno dal titolo il tasso di occupazione è pari al 71,1 per cento tra i laureati di primo livello e al 73,9 per cento tra i magistrali biennali. Il confronto con le precedenti rilevazioni evidenzia un miglioramento del tasso di occupazione che, nell’ultimo quadriennio, è aumentato di 5,4 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 3,8 punti per i magistrali biennali. Questi tassi non sono ancora in grado di colmare la significativa contrazione del tasso di occupazione intervenuta tra il 2008 e il 2013 (-17,1 punti percentuali per i laureati triennali).

La retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è, in media, pari a 1.107 euro per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali biennali. Nell’ultimo quadriennio le retribuzioni reali percepite dai laureati a un anno risultano in crescita: +9,7 per cento per i laureati di primo livello.

A cinque anni dalla laurea lavora all’estero il 6,6 per cento dei magistrali biennali di cittadinanza italiana (quota stabile rispetto al 2016, +0,6 punti percentuali rispetto al 2013). Chi decide di spostarsi all’estero per motivi lavorativi risulta “mediamente più brillante” (voti negli esami e regolarità negli studi) rispetto a chi decide di rimanere in Italia a lavorare. A cinque anni dal conseguimento del titolo magistrale, l’83,3 per cento degli occupati all’estero lavora in Europa.

 

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Una riflessione sulla scuola italiana

Una riflessione sulla scuola italiana

 

Scritto da Maria

 

Raccontare la scuola è come raccontare il mondo: l’impressione è sempre la stessa, quella  di rimanere in superficie a guardare la punta di un iceberg, senza la consapevolezza di quello che si agita o si potrebbe esplorare nei fondali. E il primo errore di valutazione, forse, lo abbiamo già fatto dalla prima riga. Aggiustiamo allora il tiro: la scuola non è come il mondo. La scuola è il mondo, quello dell’oggi, ma soprattutto quello del domani. Ci racconta che cosa siamo e che cosa saremo o avremo deciso di essere. Sono anni che l’informazione poco si occupa di questa istituzione e che, quando lo fa, si concentra, esclusivamente e per puro dovere di cronaca, a parlare di quello che “ha” non di quello che “è”, ammesso che  la scuola “sia” ancora qualcosa. E la gente registra certe notizie senza ascoltarle, senza più dare loro un valore, per cui in merito all’argomento son decenni che circolano sempre le stesse opinioni: insegnanti fannulloni e incapaci o, nel migliore e più compatito dei casi, precari, alunni perditempo o bulli, strutture fatiscenti.

“Vecchia” è il solo aggettivo associato alla scuola che però la rappresenti autenticamente, al di là di ogni strumentalizzazione e del pessimismo più nero. La scuola è vecchia, ma non nel senso che vi aspettereste. Non per la classe docente che ormai supera in media i sessant’anni o per gli edifici malridotti. Non è questo il motivo che la rende decrepita. Anche se è quello che vogliono farci credere. Se ciò fosse vero, allora per rinverdirla basterebbe un colpo di spugna, basterebbe davvero inventarsi, come è stato fatto negli ultimi mesi, registri e libri di testo in formato elettronico o iscrizioni on line. Ma non è così.

Si invecchia quando si smette di sperare. E la scuola italiana ha smesso di farlo. Demagogicamente e populisticamente sarebbe semplice riempire questo articolo di tutti quelli che sono i suoi problemi. Si potrebbe cominciare dalla mancanza di carta igienica, di gesso per le lavagne, di inchiostro e carta per  stampanti e fotocopie,  di combustibile per i riscaldamenti,  di pc per insegnati e alunni, fatto quest’ultimo che la dice lunga sulla scuola del futuro, quella giovane, quella dove basta un click. Si potrebbe parlare di scuole “arrangiate” in edifici che erano palazzi privati, dove gli alunni, mai meno di venti per classe, vengono stipati in cucine e bagni oppure di strutture non più sicure e che andrebbero ristrutturate. Ma nemmeno tutte queste costatazioni sarebbero capaci di rendere vecchia la scuola. Le mancanze economiche e strutturali danneggiano la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ma di per sé non sono responsabili del fatto che oggi la scuola appaia come un’anziana signora. La sua età non è data da un fattore esterno, per cui, sì, ci auguriamo che si possano trovare fondi da destinare a questa istituzione per sanare le sue carenze e che l’avvento di strumenti elettronici possa ottimizzare la formazione dei ragazzi – e per far ciò andrebbe completamente riprogrammata la didattica e riformulati i libri di testo, perché la probabilità più alta è che la scuola telematica del futuro sia una brutta figlia di quella attuale, nata da una semplice triturazione di programmi e contenuti, il cui fine consiste solo nella lotta alla sopravvivenza per le case editrici, piuttosto che in un investimento di energie per concepire nuove possibilità di studio –  ma non riteniamo che la questione si risolva in questo modo.

Bisogna andare a fondo e nel fondo della scuola, alle sue basi, dentro e fuori di essa, c’è un sostrato umano tutto da analizzare. È l’umano che andrebbe esplorato, alla ricerca di questa vecchiaia che sta cambiando la scuola. E le tipologie umane che la popolano sono almeno tre: quelli che comandano, quelli che brigano, quelli che subiscono. Scontato? Forse che sì, forse che no vi risponderebbe, se potesse parlare, D’Annunzio.

Al primo gruppo appartengono sia i dirigenti e sia i genitori – gli uni alla ricerca di iscritti, perché, per chi non lo sapesse, oramai la scuola deve vendere se stessa e la cosa non sarebbe tanto deplorevole, se a essere in vendita fosse la conoscenza,  gli altri sempre pronti a insegnare ai docenti parassiti il loro lavoro. Entrambi hanno smarrito quel sentimento che dove si fa formazione, alla vita e alla professione, non dovrebbe andare mai perso: la fiducia, nelle persone che insegnano e nelle materie che si insegnano.

Al secondo gruppo appartengono gli insegnati, quelli “over sessanta” e “over venticinque”. I primi costituiscono l’80% della classe insegnate e per lo più sono stanchi del loro lavoro, sono delusi da una professione che non sentono più appartenere loro e che continuano a fare perché qualcuno ha allungato l’età pensionabile. Del resto non potrebbe essere diverso. Loro hanno vissuto la scuola quando questa ancora faceva sognare, quando ancora era un valore. I secondi, una percentuale minima, vivono la scuola come un miraggio. Pagati sempre in ritardo, continuamente peregrini da un istituto all’altro, la loro attività di insegnamento è sempre una meteora, luminosa, affascinate, ma destinata a durare poco. Eppure loro ci credono, sono gli unici che ci credono ancora. Hanno sfidato il ludibrio familiare e pubblico quando hanno scelto questo mestiere e se lo hanno fatto, a differenza di quanto avveniva per il passato, lo hanno fatto solo per passione, solo per seguire una visione, quella dell’eternità delle emozioni che si trasmettono e di quelle che si ricevono dagli allievi. Eh, sì, perché la scuola prima d’insegnare dovrebbe emozionare. Che ne sarebbe di Dante, Shakespeare, Leopardi, senza emozioni? Ma che ne sarebbe anche delle conoscenze matematiche, fisiche, chimiche se perdessimo di vista l’entusiasmo di Galileo quando parla del mondo come di un libro da imparare a leggere, perché Dio ha dato solo all’uomo questa possibilità? Nulla, non ne sarebbe nulla. Esattamente quello che accade oggi. Perché?

Per rispondere veniamo all’ultima tipologia umana che si rintraccia nel grande zoo scolastico, gli studenti: quelli che subiscono le aspettative dei genitori, a cui fino a qualche tempo fa interessava la felicità e la maturazione dei figli, prima che esse venissero identificate con un conto in banca, che subiscono le frustrazioni dei docenti, quelli che non ne possono più e quelli appena lattanti che inorridiscono dinanzi all’apatia di questi ragazzi che spegne i loro furori, quelli che subiscono le ansie della società che li partorisce. Gli studenti. È in loro che si concretizza lo spettro del vecchio. Se ai trentenni di oggi i ritmi e le esigenze della nostra società hanno ucciso i sogni, agli studenti la precarietà della vita e l’indeterminatezza del futuro li ha negati completamente.

E una società che nega i sogni nega il futuro.

Una scuola che nega la speranza è una scuola vecchia.

Per cui eccoli qui i ragazzi della scuola, nella scuola: spigliati fino al disprezzo delle regole e fragili nei loro sogni di carta, nella loro disillusione che diventa angoscia esistenziale.  E come dare loro torto? Sedere tra i banchi è solo aspettare un diploma che li renderà disoccupati, in una società che non sa riprogrammarsi e che non ha insegnato loro né la gioia del sogno né la fatica del reinventarsi.

Il loro disincanto, oggi, è la colpa peggiore.

Sbaglierebbero quanti tendessero a fare di questo discorso un ragionamento di stampo morale, perché una scuola vecchia, vecchia nei giovani che dovrebbero pensare propositivamente al futuro, è un problema ben più che etico, è un problema economico. Una scuola vecchia non è forse  il frutto di una società che ha smesso di investire, di credere nello sviluppo, di credere in una possibilità, di una società che parcheggia le leve del futuro in un asilo di falsi bisogni e di vuote ambizioni?

 

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Marco Bussetti ministro dell’Istruzione

Marco Bussetti ministro dell’Istruzione

Marco Bussetti ministro dell’Istruzione: un tecnico ‘leghista’ che affronterà il dossier Buona Scuola

 

Marco Bussetti è stato studente, insegnante, dirigente scolastico e professore universitario per l’Università Cattolica di Milano e Pavia, quindi la scuola il nuovo ministro dell’Istruzione Marco Bussetti la conosce bene. Classe ’62, laureato in Scienze motorie, fino ad oggi è stato responsabile dell’ambito X (ossia Milano) dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia. È questa la nuova figura scelta a capo del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) del nuovo governo Lega-M5S.

Bussetti, in servizio presso l’IC di Corbetta fino al 2011, è un esperto di legislazione scolastica, come si può leggere sul suo curriculum vitae.

Uno dei compiti che spetterà al nuovo ministro è quello di mettere le mani, come da programma giallo-verde, sulla Buona Scuola. Per farlo sarà necessario che Bussetti tenga a mente le difficoltà quotidiane di chi svolge la propria professione nell’ambito dell’istruzione, andando quindi oltre l’esperienza da dirigente scolastico, al tempo stesso tenendo in considerazione che i fautori dello smantellamento della Buona Scuola speravano in un ministro dell’Istruzione grillino.

Nonostante ciò, il motivo per cui il suo nome è stato scelto per il governo Conte sarebbe la natura tecnica del suo profilo, e non il suo orientamento politico.

Già vengono fugati possibili dubbi sulla preparazione scolastica del nuovo ministro, che si è laureato a suo tempo con il massimo dei voti in Scienze e tecniche delle attività motorie presso l’Università Cattolica di Milano. Lo standard peggiora quando si tratta di lingue: inglese e francese – ammette lui stesso – appena sufficienti.

Sul suo profilo Facebook non ha mai nascosto la sua vocazione da uomo del Nord e la sua simpatia verso Matteo Salvini, con il quale viene ritratto in molte foto.

 

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Invalsi e la polemica sul Questionario studenti

Invalsi e la polemica sul Questionario studenti

Invalsi e la polemica sul Questionario studenti: “Nessuna intenzione di orientare il futuro dei bimbi”

L’istituto replica alle critiche per le domande ai piccoli di quinta elementare “troppo incentrate su valori materiali” e giudicate non pertinenti. “Volevamo solo conoscere le loro aspirazioni e ridurre la dispersione scolastica”

di SALVO INTRAVAIA

Nessuna volontà di “proporre modelli aprioristici di futuro, ma semplicemente rilevare alcune aspirazioni delle allieve e degli allievi in merito al loro avvenire”. L’Invalsi torna sulla domanda numero 10, che ha scatenato la protesta di genitori e insegnanti per il tema trattato, contenuta nel Questionario studenti, quello che indaga le condizioni di contesto, della quinta elementare.

Ma facciamo un passo indietro. Lo scorso 9 maggio, i 562mila alunni della quinta elementare alle prese con i test sulla valutazione delle competenze in Italiano e Matematica si sono ritrovati la seguente domanda: “Pensando al tuo futuro, quanto pensi che siano vere queste frasi?”. Con cinque possibili risposte (A. Raggiungerò il titolo di studio che voglio; B. Avrò sempre abbastanza soldi per vivere; C. Nella vita riuscirò a fare ciò che desidero; D. Riuscirò a comprare le cose che voglio; E. Troverò un buon lavoro) a cui i bambini potevano assegnare cinque livelli di gradimento: per niente, pochissimo, poco, abbastanza, molto, totalmente. E giù una valanga di polemiche sulla pertinenza o meno di una domanda del genere, rivolta a bambini così piccoli, che sembra orientare verso modelli che privilegiano “valori materiali”. Ma dall’istituto di via Ippolito Nievo spiegano che “le domande non orientano verso alcun modello di realizzazione di sé, mentre, come si sa, le aspirazioni e le aspettative degli studenti influenzano anche il loro rendimento scolastico”.

“Lo scopo di questo tipo di domande – continuano dall’Invalsi – non è proporre modelli aprioristici di futuro, ma semplicemente rilevare alcune aspirazioni delle allieve e degli allievi in merito al loro avvenire”. Il perché è presto detto: attraverso quesiti di questo tipo è possibile rilevare anzitempo i soggetti più fragili, a rischio dispersione scolastica, e mettere in campo tutte le strategie per evitare abbandoni e insuccesso scolastico. “Focalizzare periodicamente – argomentano dall’Istituto – questo tipo di ambito nei diversi livelli scolastici, aiuta ad individuare i cambiamenti che possono incidere sull’andamento del profitto scolastico. È facile riconoscere che questo tipo di indagini, condotte ciclicamente anche a livello internazionale, sono da noi fondamentali per approfondire il fenomeno della dispersione scolastica la cui portata caratterizza negativamente alcune zone del nostro Paese”. Una modalità, concludono dall’Invalsi, per “mettere in atto per tempo misure compensative”.  Con l’unico obiettivo di “garantire davvero un futuro migliore a tutte le nostre ragazze e a tutti i nostri ragazzi”.

 

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Autoregolazione, autoefficacia e co-regolazione nell’apprendimento

Autoregolazione, autoefficacia e co-regolazione nell’apprendimento

Bellissimo articolo scritto da Vincenzo Amendolagine

Diverse ricerche hanno messo in evidenza che spesso il successo scolastico dipende dalla capacità di autoregolarsi. In altre parole, per giungere ai traguardi di apprendimento lo studente deve monitorare, controllare e regolare la sua applicazione nello studio. L’autoregolazione ha un suo iter procedurale ben preciso, ovvero lo studente deve darsi un obiettivo da raggiungere, utilizzare le strategie giuste, monitorare i propri progressi, sondare l’efficacia dell’intero processo.  Perché questa abilità possa estrinsecarsi è molto importante l’approccio psicopedagogico degli educatori (Agina, Kommers e Steehouder, 2011). In pratica, è necessario che i docenti promuovano nei loro discenti, fin dalle prime fasi della scolarizzazione, un processo di apprendimento attivo, che li accompagni nel corso di tutta l’intera carriera scolastica.

La validità dell’autoregolazione nell’apprendimento è un predittore del successo nei contesti scolastici (Zimmermann, 2008). Connessa all’autoregolazione è l’autoefficacia (Bandura, 1977) che il soggetto prova quando sa che, grazie alle sue abilità, è in grado di raggiungere un obiettivo che si prefissato.

Le variabili dell’insuccesso scolastico

L’incremento del ruolo di protagonista nel proprio apprendimento è agevolato da una serie di fattori, quali il possedere delle procedure metacognitive, la motivazione ad apprendere e il contesto di apprendimento (Dembo, Junge e Lynch, 2006). Quest’ultimo svolge un ruolo chiave, potendo attivare o ostacolare l’autoregolazione nell’apprendimento.

L’autoregolazione e l’autoefficacia sono due strumenti importanti che prevengono, laddove presenti, l’insuccesso scolastico. Blair e Raver (2015) vedono l’insuccesso scolastico  correlato ad alcuni elementi, quali le caratteristiche personali (inclusi l’autoregolazione e l’autoefficacia), il retroterra familiare e il contesto scolastico. Fra le caratteristiche personali sono da annoverare la capacità di organizzare le informazioni e di finalizzarle all’esecuzione del compito assegnato; l’abilità di focalizzare la propria attenzione; l’attitudine a riflettere sulle esperienze che si fanno; la competenza sociale, che induce ad avere delle interazioni interpersonali positive.

L’apprendimento cooperativo e la co-regolazione

Frequentemente nei contesti scolastici sono promossi i processi di cooperazione fra alunni nell’ambito dell’apprendimento (cooperative learning). In questo caso, si formano dei gruppi di apprendimento in cui l’autoregolazione nello studio da processo individuale diventa collettivo, coinvolgendo l’intero insieme di studenti che partecipano al gruppo (Hayes, Uzuner – Smith e Shea, 2015). In ragione di ciò, l’autoregolazione diviene co-regolazione.

La co-regolazione è efficace, ovvero promuove anche nel singolo la capacità di autoregolazione, nella misura in cui il gruppo è efficiente, ossia si crea un’interdipendenza positiva fra i membri che lo compongono. Nei gruppi di apprendimento si stabiliscono delle dinamiche differenti. Ci sono, infatti, degli individui che adottano un ruolo più attivo e altri un ruolo più periferico. Alcune volte, però, i membri più attivi non sono necessariamente i più qualificati.

Lavoro di gruppo, autoregolazione e autoefficacia

Uno studio (Fernandez-Rio, Cecchini, Mendez-Gimenez, Mendez-Alonso e Prieto, 2017), svolto dai ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Oviedo, in Spagna, ha voluto assodare come l’apprendimento cooperativo influisce sull’autoregolazione e sull’autoefficacia di ciascuno studente che fa parte di un gruppo di apprendimento. Lo studio ha reclutato 2513 studenti di scuola secondaria di secondo grado, con un’età compresa fra 12 e 17 anni, iscritti a 17 differenti scuole che appartengono al Network Nazionale delle Scuole Spagnole che utilizzano quotidianamente l’apprendimento cooperativo. Tutti i partecipanti alla ricerca avevano fatto l’esperienza dell’apprendimento cooperativo per almeno un anno scolastico. Per valutare gli effetti dell’apprendimento cooperativo sugli studenti sono stati somministrati alcuni questionari, quali The Cooperative Learning Questionnarie (Fernandez-Rio, Cecchini, Mendez-Gimenez, Mendez-Alonso e Prieto, 2017), che indaga l’efficacia dell’apprendimento cooperativo; The Strategies to Control the Study Questionnaire (Hernandez e Garcia, 1995), che valuta l’autoregolazione nell’apprendimento; The Global Academic Self – Efficacy Questionnarie (Torres, 2006), che indaga l’autoefficacia percepita.

Dai risultati della ricerca si evince che l’apprendimento cooperativo influenza positivamente l’autoregolazione e l’autoefficacia nell’apprendimento nel 35% circa dei soggetti esaminati (888 ragazzi).

 

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Il contributo della deontologia pedagogica

Il contributo della deontologia pedagogica alla sfida dell’inclusione scolastica

Cosa rende inclusivo un docente specializzato o curricolare? Cosa fare concretamente nell’operatività del quotidiano per testimoniare l’impegno per la crescita degli alunni? L’articolo propone una visione deontologica che definisce, nella prima parte, i principi fondamentali della professione educativa secondo l’approccio del problematicismo pedagogico, e ne propone successivamente una traduzione operativa nella pratica scolastica. L’inclusione è qui declinata come centralità del diritto all’educazione per tutti, non solo per gli alunni con disabilità ma per tutti coloro che, più o meno consapevolmente, sono portatori di bisogni educativi speciali.

 

Introduzione

La traduzione pratica dei principi dell’inclusione scolastica richiede una riformulazione della deontologia di base comune a tutti i docenti, a prescindere dal ruolo e dalla specializzazione. Solo attraverso un ripensamento generale della figura docente (in termini di finalità, competenze, metodologie), sarà infatti possibile tessere uno sfondo significante comune su cui è possibile attuare i principi di una autentica inclusione scolastica, nella direzione della costruzione di contesti sempre più competenti.

L’articolo si propone di analizzare i rapporti che intercorrono tra la riflessione deontologica, elaborata nell’ambito del problematicismo pedagogico di Bertin e dei suoi allievi, e i principi dell’inclusione scolastica, frutto, in Italia, di un lungo cammino di sperimentazione ad oggi tutt’altro che concluso.

La prima parte sarà dedicata ad una rivisitazione degli elementi essenziali della deontologia pedagogica, per mostrare come in essi siano già presenti, sullo sfondo, le linee operative per una inclusione scolastica di qualità. La seconda parte sarà invece dedicata all’analisi di alcune fondamentali competenze chiave, patrimonio comune tanto dei docenti curricolari quanto di quelli specializzati, richieste al docente che opera, nel segno della deontologia, in realtà sempre più complesse, eterogenee, plurali.

I principi della deontologia pedagogica nella prospettiva del problematicismo pedagogico

La deontologia pedagogica non ha soluzioni. Nulla è più lontano dall’approccio filosofico del problematicismo bertiniano di voler fornire non solo la “ricetta” per risolvere una situazione (oggi sempre più) complessa, ma anche la possibilità di un’interpretazione univoca di essa. Così deve essere interpretata anche la prospettiva deontologica che da questo filone prende le mosse: un impegno riflessivo costante che il docente deve condurre sul proprio lavoro e sulle motivazioni che lo sorreggono, diventando sempre di più un “professionista riflessivo”. Una riflessione che attinge dalla pratica e che in essa ritorna per arricchirla e renderla viva, consapevole di sé. Interpretata in questo modo, la deontologia, afferma Bertin, assume i connotati di un pensiero “inattuale”: essa non corrisponde infatti ai canoni del “pensiero sbrigativo” imposti dal paradigma attuale, non soddisfa le esigenze della semplificazione, non offre garanzie di successo: anche per questo, sosteneva Bertin, essa va perseguita, come impegno nei confronti di tutto ciò che è attuale al fine di integrarlo e arricchirlo.

La domanda cui la deontologia risponde non è dunque semplicemente “Cosa fare?” (la ricetta) ma si connota come domanda di senso, che diventa definizione di un orizzonte regolativo formale entro cui iscrivere le diverse prassi educative quotidiane: “A che cosa (fondamentalmente e dal punto di vista etico) deve essere tenuto chi educa?”. Nel rispondere a questa domanda facciamo esplicito riferimento alla proposta Contini che, facendo propria l’impostazione del problematicismo, ha sistematizzato in tre principi fondamentali la deontologia pedagogica delle professioni educative e, tra queste, dell’insegnante.

 

 

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Arriva la rivoluzione dei test Invalsi

Test Invalsi

Arriva la rivoluzione dei test Invalsi: più tempo e meno domande

 

Per la terza media si svolgeranno dal 4 al 21 aprile, e non più durante l’esame finale, con la modalità computer-based e non saranno più in contemporanea in tutte le scuole italiane

di SALVO INTRAVAIA

 

IL ministero dell’Istruzione, in una circolare per i test invalsi, ha spiegato tutte le novità introdotte dalla Buona scuola sul quizzone croce e delizia, da quando è stato introdotto, di mezzo milione di studenti. Il Miur ripercorre le modifiche che partiranno proprio quest’anno delineando le misure messe in campo per evitare di mettere in difficoltà i ragazzi alle prese con la novità.

Innanzitutto, “la partecipazione alle prove invalsi – ricordano dal ministero – è requisito di ammissione all’esame”. Senza avere partecipato, a prescindere dalla valutazione, non si potrà accedere agli esami. E, alle prove di Italiano e Matematica, si aggiunge quella di Inglese. Ovviamente, per coloro che fossero costretti ad assentarsi, sono previste una o più sessioni di recupero. Modalità differenziate (eventualmente anche in forma cartacea) per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento e per quelli affetti da disabilità.

Le prove non si svolgeranno, come avveniva fino allo scorso anno, nello stesso momento ma “secondo calendari specifici per ciascuna istituzione scolastica”. Per la terza media si svolgeranno dal 4 al 21 aprile i test invalsi. I tre quizzoni avranno inoltre il 10 per cento di domande in meno rispetto alle edizioni precedenti (in cui il numero di domande cambiava ogni anno) e verrà concesso più tempo: 15 minuti in più. In altre parole, per risolvere i diversi item gli studenti avranno a disposizione 90 e non più 75 minuti.

Due le motivazioni che hanno spinto l’istituto di via Ippolito Nievo ad “alleggerire” la prova dei test invalsi. Primo: fare “in modo che le alunne e gli alunni abbiano tutto il tempo per rispondere serenamente alle domande. Secondo: la modalità computer-based “consente di mantenere la stessa precisione nella definizione dei risultati con un numero minore di quesiti di un’equivalente prova cartacea”. Mentre i contenuti della prova d’Italiano e di Matematica saranno in perfetta continuità con quelli delle prove degli anni passati, mentre quelli della prova d’Inglese sono in linea con quanto previsto dal Quadro comune europeo di riferimento delle lingue, al livello A1.

Per sbarcare sul web le prove “sono state predisposte – spiegano da viale Trastevere – su una piattaforma online già utilizzata in diversi paesi europei per lo svolgimento di prove analoghe e in alcune importanti ricerche comparative internazionali”. Ma le scuole medie avranno le necessarie attrezzature – computer e collegamenti internet perfettamente funzionanti – per traghettare le prove Invalsi nel terzo millennio? Qualche settimana fa, alcuni presidi lanciarono l’allarme su un possibile caos, paventando il ritorno alle prove cartacee. Ma all’Invalsi sono categorici: “Si fa presente – spiegano – che ciò non sarà possibile dal momento che la modalità di somministrazione “computer based” delle prove è un requisito fissato esplicitamente dalla legge. Pertanto – continuano

dall’istituto nazionale di valutazione – l’Invalsi, pur dichiarandosi disponibile ad ogni tipo di flessibilità circa l’organizzazione pratica delle prove, non potrà attuare modalità di somministrazione diverse da quelle previste dalla legge”.

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L’università perde professori e ricercatori

L’università perde professori e ricercatori: in sette anni quasi cinquemila in meno.

L’università perde professori e ricercatori, sempre meno toghe. E sempre più precarie: assegnisti di ricerca e docenti a contratto. , s L’università italiana ha perso per strada in sette anni 4.650  professori e ricercatori (il 7,9%): erano 58.885 nel 2010-11, sono 54.235 nel 2016-17. In particolare, diminuiscono di quasi un quinto gli ordinari (da 15.169 a 12.156) e i ricercatori (da 24.530 a 19.737), mentre per effetto del piano straordinario, con le tornate di abilitazioni degli ultimi anni, gli associati segnano un più 16,7%. Insomma il blocco del turnover, che negli anni passati ha frenato il reclutamento negli atenei, si è fatto sentire e i numeri lo dimostrano. In compenso salgono i titolari di assegni di ricerca, studiosi precari con contratti rinnovabili sino a 4 anni: sono cresciuti da 13.109 nel 2010-11 a 13.946 nel 2016-17 (+6,4%). In generale, tenendo conto anche di questo balzo in avanti degli assegnisti, i ricercatori arrivano così a superare i professori ordinari e associati: i primi salgono al 28,1%, gli altri si fermano al 26,2%. È la fotografia scattata dal ministero nel Focus sul personale docente e non docente nel sistema universitario italiano appena pubblicato e che riguarda l’anno accademico 2016-2017.

· POCHE DONNE IN TOGA E QUASI 26MILA DOCENTI A CONTRATTO
Rispetto al 2010-11 la consistenza del personale universitario, pari a 125.600 dipendenti tra docenti e amministrativi, è diminuita del 6,5%. La riduzione coinvolge i professori (-7,9%), i collaboratori linguistici (-7,8%) e il personale tecnico amministratvio (-7,5% a tempo indeterminato; -13,8% a tempo determinato). A questi vanno aggiunti 25.770 docenti, non di ruolo, titolari di contratti di insegnamento nei corsi universitari.

Le differenze di genere si fanno sentire. Se le donne costituiscono più della metà del personale tecnico-amministrativo (58,5%), tra i docenti e ricercatori la loro presenza scende al 40%. Ed è soprattutto ai vertici della carriera accademica che le donne sono poco rappresentate. Nulla di nuovo sotto il sole: le dirigenti sono il 40%. Per le docenti il rapporto parla di “segregazione verticale”: la loro presenza diminuisce al progredire della carriera. Infatti, la percentuale di donne supera seppur di poco la metà tra i titolari di assegni di ricerca (50,7%), raggiunge quasi il 47% tra i ricercatori e, via via, si riduce al 37,2% tra i professori associati ed al 22,3% tra gli ordinari. Tale situazione, precisa il Miur, è abbastanza comune e diffusa anche in altri paesi europei: la percentuale di donne afferenti al Grade A, corrispondente alla posizione di full professor (professori ordinari per l’Italia), in Europa è pari a circa il 21%.

L'università perde professori e ricercatori: in sette anni quasi cinquemila in meno

Fonte Miur

· LA PIRAMIDE ACCADEMICA. ETA’ MEDIA? 52 ANNI
Il mondo accademico, formato da 64.321 unità nelle università statali, si conferma a forma di piramide. I professori ordinari, che sono il 18,9%, rappresentano il vertice. Chi svolge quasi esclusivamente attività di ricerca (titolari di assegni e ricercatori) forma la base: sono il 51,6%. La distribuzione degli accademici per settori scientifico-disciplinari non è omogenea: in percentuale, il maggior numero di docenti e ricercatori afferisce all’area delle Scienze mediche (16,3%) mentre appena il 2% afferisce all’area Scienze della terra. La composizione di ciascuna area per qualifica evidenzia, inoltre, che nelle aree di Scienze giuridiche e di Scienze economiche e statistiche circa il 57% del personale docente e ricercatore è costituito da professori ordinari ed associati, mentre ai Scienze biologiche i ricercatori ed i titolari di assegni di ricerca rappresentano poco più del 60% del personale. L’età media? È pari a 52 anni: si va dai 59 anni dei professori ordinari, ai 52 anni dei professori associati fino ai quasi 47 anni dei ricercatori. Includendo anche i titolari di assegni di ricerca l’età media complessiva scende a 48 anni.

 

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